Agli inizi degli anni ’50 il filone del cinema neorealista si sta esaurendo, la guerra è ormai lontana e gli italiani preferiscono premiare al botteghino il cinema d’intrattenimento americano. Proprio in quegli anni, precisamente nel 1952, in apparente opposizione con i tempi, Vittorio De Sica insieme allo sceneggiatore Cesare Zavattini dirigono l’ultimo capolavoro della stagione neorealista, segno che nonostante la società italiana sembra essersi rialzata dai dolori della guerra permane l’esigenza di documentare l’estrema precarietà di alcune categorie tra cui gli anziani, che di fronte ad una società in rapida evoluzione, emarginati, sono uno scarto da superare.
Umberto d., pellicola dedicata alla memoria del padre Umberto De Sica, è la storia di Umberto Domenico Ferrari, anziano impiegato ministeriale che con la sua misera pensione e il suo amato cagnolino Flaike cerca di affrontare dignitosamente la vecchiaia, nonostante lo sfratto che incombe, l’avanzata dell’età e la solitudine esistenziale. Il povero anziano passa le giornate a vendere i suoi averi per racimolare qualche lira in più e pagare l’affitto per la sua stanza a un’odiosa padrona di casa che lo vuole fuori a tutti i costi.
Coerente con la tendenza neorealista, De Sica, come in Sciuscià e in Ladri di biciclette, sceglie di affidare i ruoli dei suoi personaggi ad attori non professionisti; l’anziano protagonista è interpretato da Carlo Battisti, professore di glottologia all’Università di Firenze mentre l’ingenua servetta, rimasta incinta ma senza un compagno, l’unica sincera amica del nostro Umberto, è interpretata da una giovane Maria Pia Casilio, nella sua prima esperienza attoriale.
La mano di Zavattini è evidente dalla tecnica del ‘pedinamento’ (adottata anche in Ladri di biciclette), la macchina da presa segue l’anziano Umberto, lo accompagna nel suo vagabondare, tra le strade rumorose di Roma, tra la mensa dei poveri, l’ospedale e il canile per cercare il suo amato Flaike, poi fortunatamente ritrovato. Attraverso la semplicità del quotidiano assistiamo al senso di impotenza sempre più forte del protagonista , solo, emarginato, povero, impotente nei confronti del mondo esterno. Umberto, prossimo allo sfratto, con una stanza ormai fatiscente, in condizione economiche precarie si arrende: ‘sono stanco’ dice alla giovane Maria e lascia così definitivamente la sua stanza. Rifiuta di chiedere l’elemosina per vergogna e in un drammatico slancio di dignità sceglie di togliersi la vita. Si getta sui binari con Flaike, ma il cagnolino percependo il pericolo, sfugge dalle braccia del padrone e si allontana, salvandosi e salvando anche l’anziano padrone che rinsavisce e lo rincorre.
In un film in cui lo Stato e l’umanità tutta vengono meno nei confronti di un uomo, di un cittadino che ‘ha lavorato per trent’anni’, è proprio la scena finale a rinnegare tale messaggio. Se precedentemente è stato l’anziano Umberto a salvare la vita di Flaike, recuperandolo dal canile e evitando di affidarlo a gente poco raccomandabile, nell’ultima scena è proprio il cagnolino a evitargli un gesto estremo. Attraverso un finale senza alcun tipo di rassicurazione, l’unica certezza di umanità è l’amore per Flaike che riconcilia il protagonista con il mondo esterno rinunciando alla morte. Flaike allontanandosi dai binari del treno, è inizialmente spaventato dal suo stesso padrone che lo invita a giocare con una pigna, la fiducia è ristabilita, i due insieme sereni sono ormai distanti dalla scena.