In questi giorni estivi, sotto i nostri occhi, qui, in ogni parte d’Italia, assistiamo alle poderose ondate di turisti dei nostri paesi, dei nostri borghi, delle nostre case. Lo sfruttamento turistico dei luoghi ci ricorda ancora una volta quanto sia attuale e urgente il dibattito sulle conseguenze della gentrificazione selvaggia, soprattutto nel nostro Mezzogiorno, dove è in atto una costante erosione delle identità sociali e antropologiche delle nostre comunità, causata dall’utilizzazione dei patrimoni immobiliari per fini di sostentamento attraverso lo strumento dell’offerta turistica.
Una visione umiliante del futuro Sud da consegnare all’unico, possibile volano di sviluppo, ovvero la cosiddetta vocazione turistica del territorio, finisce per giustificare ogni trasformazione del tessuto economico e commerciale: precarizzazione del lavoro, sfruttamento intensivo di case, strade, piazze con l’unico scopo di intercettare il flusso dei viaggiatori.
Un fenomeno che negli ultimi anni ha letteralmente massificato tante località e città d’arte italiane, disorientando e snaturando la vita quotidiana dei suoi abitanti; piccoli paesi con un flusso di migliaia di turisti che mette a dura prova la rete dei trasporti e costringe a disagi continui i cittadini residenti.
Gli aspetti critici del turismo di massa investono anche la percezione stessa di territori che hanno peculiarità uniche e che sono stati trasformati da logiche grossolane di profitto in immensi parchi d’intrattenimento.
Il settore turistico, più di ogni altro, si presta a una rapida crescita economica, ma in un paese fragile come l’Italia, sotto tanti punti di vista, non si dovrebbe mai perdere di vista il quadro d’insieme.
I fattori di criticità sono svariati: dalla condizione idrogeologica di vasti territori, sia a Nord che a Sud, che costituisce certamente un rischio per la forsennata antropizzazione a scopi turistici, all’immenso patrimonio artistico e naturalistico che viene quotidianamente violato da condotte irresponsabili di frotte di vacanzieri che non hanno, spesso, alcuna consapevolezza e conoscenza dei luoghi in cui si trovano.
Non è auspicabile che un paese come l’Italia, per il solo fatto di essere un concentrato unico di bellezza, un contenitore di natura, arte, architettura senza eguali al mondo, debba per questo motivo diventare un gigantesco parco turistico. Turismo e cultura non vanno sempre a braccetto, soprattutto quando il primo assume forme così travolgenti e impetuose, al punto da smantellare secolari relazioni tra comunità e territori.
Qui il termine cultura deve assumere il senso di difesa e conservazione di un’armonia che la storia ci ha consegnato; l’equilibrio che l’uomo ha “allestito” tra l’inevitabile progresso e la testimonianza di un passato che in nessun altro paese sa farsi presente come in Italia.
Non si tratta di ricorrere a formule draconiane come il numero chiuso per l’accesso a città e luoghi d’interesse culturale e naturalistico, né di alzare ideologici vessilli anti globalizzazione. Piuttosto, bisognerebbe incoraggiare un turismo maturo e sensibile, che possa avvalersi di guide preparate anche nell’infondere il rispetto civico dei luoghi, il ricorso a modalità di trasporto sostenibile, in modo da lasciare nella memoria del viaggiatore la traccia di un percorso di conoscenza di una comunità con i suoi propri stili di vita, i suoi tempi e le sue usanze.
Noi non possediamo lo spazio e i luoghi delle nostre vite; nelle città che abitiamo, in cui viviamo, abbiamo sviluppato un senso di appartenenza e ne portiamo la testimonianza; abbiamo creato stili di vita di comunità che vanno consegnati ai posteri, non perché tutto rimanga sempre uguale a se stesso, ma perché resti diverso da ciò che è altro e salvaguardato dall’omologazione e dall’appiattimento.