Cosa succede quando si delega a un bambino la responsabilità di prendersi cura di una persona fragile? Non si ottiene né un adulto, né le cure necessarie. “Summer Brother” è il quarto film in concorso per la sezione Generator +18 della 54esima edizione del Giffoni Film Festival. Debutto alla regia dell’olandese Joren Molter, ospite in Sala Galileo per rispondere alle curiosità dei giurati, il film racconta la storia di Brian e di suo fratello gravemente disabile Lucien durante una fatidica vacanza estiva insieme al padre single Maurice. I tre vivono in una casa mobile e percepiscono un compenso da parte dell’istituto in cui Lucien è ospite per le cure, per prendersi cura di lui durante la pausa estiva, ma Maurice si trova costretto ad affidare la maggior parte delle cure del ragazzo al piccolo Brian.
La malattia di Lucien non è una malattia tale da consentirgli un dialogo con il fratello più piccolo, che come la maggior parte dei secondi figli è più intraprendente e solitario del primogenito. Brian si trova quindi in questa dimensione liminale, portando sulle spalle un peso ben più grande della sua giovane età – e per quanto l’affetto per Lucien possa in qualche modo mitigare la concretezza della responsabilità che gli è stata affidata, non è semplice per un bambino tenere a mente tutti i passaggi necessari per garantire le cure. Questa difficoltà viene mostrata attraverso alcuni errori “banali” che il bambino fa, come per esempio lasciare esposto al sole il fratello durante le ore più calde, causandogli una bruciatura, per allontanarsi temporaneamente dalla casa mobile in cui vivono.
Prendersi cura di una persona fragile è un atto di umanità che va insegnato sin da piccoli, ma l’abilismo pervasivo della società porta a vedere persone come Lucien come pesi da scaricare a chi può meglio sopportarli. Maurice, come padre, avrebbe dovuto sicuramente insegnare a Brian a prendersi cura del fratello, ma nei modi e nei tempi più consoni all’età del ragazzo – ma la situazione quasi costringe il padre a “scaricare” questa responsabilità su un bambino che non è del tutto pronto ad accoglierla, ma lo fa con la naturalezza di cui solo un ragazzino può essere capace.
La dimensione interpersonale di Brian è profondamente affetta dalla quasi totale assenza di coetanei con i quali rapportarsi, o adulti che possano dedicargli la giusta cura: tra le sue migliori amiche c’è una ragazza molto più grande, Selma, anche lei ricoverata in una struttura, con la quale il ragazzo condivide momenti di affetto senza una reale consapevolezza dei gesti che si rivolgono a vicenda.
La sensazione lasciata da “Summer Brother” è una sensazione di abbandono e impotenza, smorzata solo dalla profonda empatia di Brian verso il linguaggio criptico di Lucien, e tutti gli sforzi per interpretarlo in modo tale da potersi prendere cura di lui al meglio. C’è abbandono nella casa mobile, lasciata in un disordine inquieto che è indicatore della lotta che anche Maurice, al netto delle sue negligenze, combatte. C’è abbandono nelle lunghe scene in solitaria di Brian, nei suoi silenzi, nella vastità del parcheggio per roulotte dove questo relitto di famiglia vive. E c’è abbandono nel modo in cui la vita sembra passare attraverso i protagonisti più giovani, in un tempo che scorre lento e frustrante, nell’attesa irrequieta che qualcosa si rompa da un momento all’altro.
Ma quest’abbandono non è soltanto interno: una forma di negligenza ancora più soverchiante e manifesta è quella delle istituzioni, pronte ad offrire un compenso pur di non prendersi cura di chi nella società è ritenuto né più né meno che un peso da sganciare il prima possibile.
L’inclusione nel cast di attori con disabilità rende il film non soltanto reale, ma ha reso una vera e propria sfida riuscita la realizzazione di quest’ambiziosa opera prima pregna di domande che vengono lanciate al pubblico come un gavettone in una giornata afosa.