Un anno dopo la pubblicazione de “La società dello spettacolo” di Guy Debord nel novembre del 1967, la rivista “Internationale Situationniste”, diretta dallo stesso Debord, constatava con soddisfazione che secondo le statistiche dei librai, questo libro figurava tra i più rubati nelle librerie. Nella prefazione a una traduzione italiana del suo libro pubblicata nel 1979, Debord ricordava con orgoglio che “pochi libri sono ricopiati sui muri” ma che il suo, ovviamente, lo era. E su questa falsariga pensava che “non esiste nessuno al mondo che sia capace di interessarsi al mio libro, al di fuori di coloro che sono nemici dell’ordine sociale esistente, e che agiscono effettivamente a partire da questa situazione”. Ed in effetti fu molto letto anche nelle fabbriche italiane in quegli anni, sulla scorta di una precisazione che lo stesso Debord riassumeva cosi:” è necessario leggere questo libro tenendo in mente che è stato scritto con la precisa intenzione di nuocere alla società spettacolare”.
Sicché, il lucido articolo di Silvia Siniscalchi di qualche giorno fa su “Resistenze”, con la sua puntuale ricapitolazione delle metamorfosi della cosiddetta “napoletanità”, fino alle odierne , conformistiche assimilazioni in stile hollywoodiano, cui giunge in virtù di una emulazione culturalmente indotta, mi ha offerto non solo lo spunto per l’ouverture dedicata a quel Guy Debord autore di “La società dello spettacolo”, ma di associarlo a un altro testo epocale, anteriore di oltre vent’anni, cui misero capo due dei massimi filosofi di quegli anni: “La dialettica dell’Illuminismo”, di Adorno e Horkheimer.
D’altra parte il concetto di “spettacolo” presenta delle convergenze oggettive con quello di “industria culturale” elaborato dai due filosofi tedeschi nel loro esilio in California nei primi anni 40. Essi denunciarono la riduzione della cultura a una merce e la perdita del suo potenziale critico e utopico, che andava di pari passo con un impoverimento generale della vita e della sensibilità.
Ma al di là di tale inquadramento storico-culturale, una constatazione si impone: le idee e le riflessioni di quegli anni hanno contribuito allo sviluppo del capitalismo postmoderno: retrospettivamente, il movimento mondiale di quegli anni, appare piuttosto come una “modernizzazione delle sovrastrutture arcaiche dell’epoca”, soprattutto nell’ambito dei “costumi e delle libertà individuali”, adeguandole alle nuove condizioni create dalla fase di sviluppo capitalistico. Sicché “critica artistica” e ” critica politica”, rivoluzionarie all’epoca, si presentano oggi come il precursore dell’odierno “capitalismo estetico”, o del “terzo spirito del capitalismo”, basato sulla valorizzazione , più o meno esasperata, della “creatività ” e della “autonomia individuale” che hanno sostituito le vecchie gerarchie rigide e piramidali.
In tal senso, Debord denunciò, nei suoi “Commentari sulla società dello spettacolo”(1988), l’irrazionalità sempre più folle e più autodistruttiva dello spettacolo, in cui le “diverse varianti locali” hanno finito per fondersi in una sorta di “blob democratico” esteso al globo intero e che chiamò “lo spettacolare integrato”.
Una peculiare forma-soggetto di tale livello di “integrazione” è rappresentata da due tipiche espressioni della scena musicale nazional-popolare in salsa melodico-partenopea: Geolier e Liberato, sulla falsariga dello stile di vita improntato all’happy hour, rimodulano, secondo specificità locali, stili musicali e canoni estetici la cui derivazione è incarnata nei parossismi del rapper americano Kayne West. Figura poliedrica quanto controversa, costui “riassume” una tipica espressione dell’individualismo contemporaneo in cui si fondono elementi “creativi”, affaristici, ideologici e personologici che vanno a costituire una costellazione soggettiva non priva di elementi inquietanti, tra i quali spiccano, per densità concettuale e rilevanza sociale, un certo chiassoso antisemitismo strutturale, unitamente ad aspetti razzistici e discriminatori di stampo antifemminista, e last but not lest, una reiterata e ostentata adesione al mai sopito “trumpismo” dilagante negli Stati Uniti.
Sicché se nel “mare di Napoli” fluttuano melodie del tipo ” I ‘ P’ ME, TU P’ TE”, …che potremmo benissimo considerare il corrispettivo melodico della “dissociazione dei sessi” sul piano delle relazioni, dall’altra parte dell’oceano è sbarcato ormai anche in Italia “mr. West”, poco “fare” e molto “far”, sulla cui t-shirt (per gli eventuali attardati e accampati nel “migliore dei mondi”) campeggia la scritta “white lives matter” (le vite dei bianchi contano), come a dire “the business is usual “, ai cui riti, scientificamente preordinati da magistrali e poderose logiche di marketing, accorrono folle entusiaste e predisposte all’idolatria, che, come è noto, presuppone un peculiare aspetto di una più radicale alienazione cui incorrono le nuove generazioni: il dissolvimento di sé nell’oggetto idolatrato, ovvero l’apologia della forma merce nell’epoca della sua compiuta maniacalità.
E poco importa se i paladini del “politically correct” presumono di compiacersi nobilitandola come espressione di “body art” o plaudendo alla “cifra surrealista” con cui si vorrebbe ammantare l’odierna forma di “entraitenement”.