La prima volta che ho conosciuto la professoressa Silvia Siniscalchi mi è subito sembrata una donna forte, sagace e brillante. Ascoltando le sue risposte durante questa intervista quella che era stata la mia prima impressione, s’è rivelata essere la realtà. Docente di Geografia e Digital and Public Geography al Dipartimento di Studi Umanistici (DIPSUM) dell’Università degli Studi di Salerno, la Siniscalchi nutre da sempre una forte passione per la musica che condivide con la sua famiglia e che rappresenta la sua “seconda anima”.
Lei insegna Geografia al Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università degli Studi di Salerno. Come si studia la geografia all’università e che tipo di docente è con i suoi studenti?
La ringrazio della domanda, che mi dà l’occasione di chiarire un punto fondamentale. Anni fa, parlando con un collega, mi resi conto di quanto fosse diffusa l’idea della Geografia come scienza fondata sulla memorizzazione asettica di nomi di fiumi, laghi, mari, monti, città e così via. Di certo l’analisi geografica non può prescindere da questi riferimenti, ma la loro conoscenza consegue da uno studio molto più articolato e complesso di quello meccanico di un almanacco. A essere privilegiata è piuttosto l’analisi di strutture spaziali di tipo fisico, umano, culturale, storico-sociale, politico-economico, geopolitico e via enumerando, attraverso strumenti cartografici e statistici. La Geografia esamina così i processi di territorializzazione e deterritorializzazione, nelle loro dinamiche materiali e immateriali e nei loro legami costitutivi con il tempo. Paul Vidal de La Blache, alla fine del XIX secolo, avrebbe proprio per questo fondato la rivista “Annales de Géographie”, fortemente ispirata allo studio della storia in ottica spaziale. Si tratta d’altra parte di un binomio inscindibile sul piano dell’apprendimento tout court, essendo spazio e tempo precondizioni ineludibili di ogni percezione e comprensione, come chiarisce Kant nella “Critica della ragion pura”, che potremmo considerare, sulla scia di Cassirer, una sorta di descrizione geografica dell’intelletto umano (non a caso Kant per quarant’anni è stato anche un docente di Geografia). Parte quindi da questi presupposti la Geografia che cerco di insegnare agli studenti del mio Dipartimento. Si tratta di giovani iscritti ai corsi di laurea in Lettere e in Lingue, per i quali cerco di privilegiare una formazione di tipo professionale, avendo presenti sia gli argomenti previsti dai programmi ministeriali per l’insegnamento a scuola della Geografia sia quelli potenzialmente spendibili in ambito economico o turistico-territoriale. Considerate le difficoltà che la maggior parte degli studenti incontra nello studio della disciplina, soprattutto per la mancanza di basi di partenza adeguate, considero fondamentale un approccio didattico improntato alla massima apertura verso le loro richieste di chiarimento, nel presupposto del reciproco rispetto.
Tra i suoi insegnamenti c’è “Digital and Public Geography”: di cosa si tratta nello specifico?
La Digital and Public Geography (DPG) è una forma particolare di geografia, incentrata sulle modalità di costruzione della comunicazione geografica in diversi contesti sociali. I geografi in Italia oggi sono quasi del tutto assenti dal dibattito pubblico, come dimostra il fatto che quasi mai figurano tra gli esperti invitati da testate giornalistiche o trasmissioni televisive per commentare temi e problemi della contemporaneità. Una parte di responsabilità a tal proposito è degli stessi geografi italiani. Negli anni ‘70-‘80 del secolo scorso hanno preso piede nuove istanze della disciplina, in un clima di tensione intellettuale e culturale, contraddistinto da aspre e accese contrapposizioni epistemologiche e ideologiche, coeve alle grandi trasformazioni del tessuto sociale e territoriale italiano. Il risultato di quella rivoluzione culturale è però stato molto deludente, giacché le istanze politiche e sociali hanno finito spesso con lo svuotare la disciplina del suo specifico bagaglio scientifico-culturale e del suo zoccolo duro, svilendone le prerogative. Per contro, un’altra parte della geografia italiana ha per lo più disertato l’impegno pubblico, privilegiando ambiti di studio destinati ai soli addetti ai lavori e perdendo così di vista l’attualità. La DPG cerca quindi di rompere questo stato di cose, favorendo l’interazione tra geografia e pubblico non accademico. Si tratta di una formula diffusa soprattutto nella geografia francese e anglosassone, dove i geografi animano discussioni di carattere collettivo con grande padronanza delle modalità di comunicazione di temi complessi, presentati in formule provocatorie, accattivanti e divulgative. A essere favoriti sono temi legati ai valori sociali, naturalmente insiti nelle questioni territoriali, trasformati in materia di dibattito. I modi in cui la DPG opera sono quindi molteplici, suggerendo ai geografi, accademici e non, determinati tipi di tecniche comunicative, per sensibilizzare l’attenzione del pubblico verso temi territoriali di interesse comune. Per potenziare l’effetto comunicazionale sono impiegate varie formule narrative, a partire dall’uso di fonti diversificate – cartografiche ma anche giornalistiche, cinematografiche, poetico-letterarie, musicali – trasformate in storytelling oppure presentate attraverso le geo-tecnologie digitali, per attirare l’attenzione del pubblico e animare gruppi di discussione – famosi sono a riguardo i Caffè della Geografia, originariamente nati in Francia – correlando temi propriamente geografici con problemi e prospettive di carattere pubblico. La DPG si rivela quindi particolarmente utile per le attività di Terza Missione a cui è oggi chiamata l’Università, rivolte proprio al coinvolgimento degli attori territoriali e della collettività con attività diversificate, tra cui quelle di formazione continua. Queste ultime fanno parte tra l’altro delle numerose iniziative che stiamo portando avanti da diversi anni con i colleghi dell’Associazione Italiana Insegnanti di Geografia (AIIG), di cui coordino la sezione regionale Campania.
Nel 2020 ha pubblicato il suo libro “Per una geografia storica di Salerno: le fonti cartografiche”, sulle trasformazioni territoriali della nostra città. Ce ne vuol parlare?
Si tratta del primo step di una ricerca più ambiziosa, che cerca di colmare un vuoto nel panorama degli studi geografici di carattere locale. Esistono infatti molte ricerche sulla città di Salerno, di carattere storico, sociale, urbanistico, archeologico e via enumerando. Non è stata sinora realizzata invece una ricerca marcatamente geografico-storica sulla città, vale a dire uno studio integrale che cerchi di ricostruire i processi territoriali che l’hanno caratterizzata nel corso dei secoli avvalendosi dell’incrocio delle fonti più prettamente geografiche con quelle storiche. Il che significa prendere in esame le interazioni tra collettività e ambiente che sono sottese in ogni processo storico e che ne spiegano, da punti di vista interrelati, le evoluzioni. Le prime fonti che ho preso in esame a tal fine sono state quindi quelle cartografiche, come recita il titolo del volume, avvalendomi sia dei materiali resi disponibili dall’Archivio di Stato di Salerno – che negli ultimi decenni ha allestito una serie di interessanti mostre e pubblicazioni sul proprio patrimonio cartografico – sia degli studi su Salerno realizzati da studiosi di altre discipline. Il libro, come dicevo, è il primo di una serie, ma ha visto la luce nell’anno della pandemia. Non mi è stato quindi possibile dargli un’adeguata visibilità. Conto perciò di ripartire con una ristampa di questo primo volume in una riedizione aggiornata, per poi proseguire la ricerca sulle trasformazioni spaziali della città attraverso l’esame delle fonti toponomastiche, dei fondi d’archivio, delle fonti poetico-letterarie, nonché di quelle di carattere più marcatamente “public”, considerata la recente pubblicità che la città ha avuto grazie alla serie TV tratta dai romanzi di Diego De Silva. Un lavoro vasto e complesso, quindi, che conto di fare in cooperazione con altri colleghi e studiosi.
Qual è stato il suo background culturale e il suo percorso di studi?
Dopo il diploma al liceo classico, il diploma in pianoforte e la laurea in Filosofia, mi sono trasferita a Milano, dove ho fatto una serie di esperienze formative (due master) e lavorative nel campo dell’informatica umanistica, grazie alle quali ho poi vinto un assegno di ricerca al CNR di Pozzuoli. Contemporaneamente sono entrata nella Scuola di Specializzazione all’Insegnamento Secondario e, come cultrice della materia, ho iniziato a collaborare con la cattedra di Geografia dell’Università di Salerno, dove sono infine rimasta, intraprendendo la carriera universitaria fino a diventare professoressa ordinaria. Al contempo ho proseguito gli studi, conseguendo un terzo master all’Università di Firenze in Sistemi Informativi Geografici e continuando ad aggiornarmi periodicamente sull’uso di questi software, che sono utilissimi e, direi, quasi indispensabili per chi voglia studiare e insegnare oggi la Geografia.
Vincenzo Aversano è per lei un punto di riferimento fondamentale. Una riflessione sui suoi studi? E in che modo essi hanno influenzato, negli anni, il suo lavoro?
Il professore Aversano è stato ed è tuttora, senza ombra di dubbio, il mio mentore per la Geografia. I suoi studi attraversano gli ultimi, intricati quarant’anni di storia della disciplina in Italia, caratterizzati dai nodi di una relazione speculare tra pluralismo teoretico e crisi epistemologica, per alcuni versi interna a quella, più vasta, del pensiero occidentale tout court. In questo complesso ginepraio, il professore Aversano ha spesso anticipato i nuovi orientamenti geografici, sperimentando strade “pionieristiche” e percorrendo quasi tutti gli ambiti della Geografia, spaziando da quella umana a quella storica, dalla storia della geografia e cartografia alla cartografia e toponomastica geografico-storiche, dai fondamenti teorico-epistemologici alla didattica della disciplina, dalla geografia urbana e delle sedi alla geografia culturale, del turismo e amministrativa. Da lui ho quindi appreso le nozioni generali della disciplina e quelle più specificamente legate alle sue articolazioni, a partire dal regolare ricorso nella ricerca alle fonti dirette, anche d’archivio, al costante riscontro sul campo, puntando a conciliare la tradizione con innovative metodologie e tecniche di approccio. Ho poi cercato di percorrere anche delle strade più vicine alle mie personali inclinazioni, sperimentando nuovi percorsi di ricerca in ambiti geografici diversi, senza però mai perdere di vista il rigore metodologico e senza mai abbandonare la strada maestra della Geografia, da farsi “con i piedi”, come solevano ripetere i maestri di un tempo, con un profondo rispetto e amore per il territorio.
Lei è anche una musicista e la sua passione per la musica rappresenta una parte importante di lei. Qual è il suo rapporto con questa “seconda anima” e come si integra con il suo lavoro di docente universitaria?
La musica è effettivamente una parte costitutiva della mia vita quotidiana, una passione che condivido con mio fratello Enrico, avvocato e cultore della canzone napoletana. A casa mio padre suonava vari strumenti, tra cui un bellissimo pianoforte appartenuto alla sua famiglia, divenuto da bambina il mio compagno di giochi, su cui mi divertivo a ripetere le melodie e le canzoncine che ascoltavo in TV. I miei genitori mi affidarono perciò a un maestro di musica, seguito poi da altri, fino al conseguimento del diploma al conservatorio S. Pietro a Majella di Napoli. Pur avendo dovuto rinunciare all’idea di dedicarmi all’attività concertistica, non ho mai smesso di suonare e non credo sia un caso che proprio la musica mi abbia condotto verso la Geografia. Non mi riferisco semplicemente all’amore per le sonorità della natura e dei paesaggi, suggestivamente rievocati dalla cosiddetta musica “a programma” – di cui la sinfonia “Pastorale” di Beethoven è uno degli esempi che prediligo – ma al fatto che il mio stesso rapporto accademico con la Geografia ha avuto come nucleo fondativo la richiesta di una collaborazione musicale che mi ha portato a incontrare il professore Aversano. Del resto, proprio lui, autore di un recente volume sulla canzone napoletana esplorata in ottica multidisciplinare e “glocale”, già negli anni Novanta aveva intuito che la musica costituisce uno degli strumenti didattici più efficaci per la trasmissione della Geografia, non solo dal punto di vista metaforico – essendo il geografo una sorta di direttore d’orchestra che deve conoscere e coordinare i diversi saperi sottesi all’analisi territoriale – ma anche in senso metodologico concreto. Ci sono ad esempio alcune canzoni che richiamano in maniera esplicita questioni geografiche di tipo socio-territoriale e storico-culturale, legate alle trasformazioni della contemporaneità. Di recente ne ho proposto una agli studenti del corso di DPG, invitandoli all’ascolto di “No Roots” (Senza radici), un brano portato al successo dalla cantautrice tedesca Alice Merton, che evidenzia per l’appunto il senso di totale sradicamento della contemporaneità.
Se dovesse dare un consiglio ai giovani che stanno per scegliere la propria strada per il futuro o che hanno appena intrapreso gli studi universitari, quale sarebbe?
I miei genitori, nel corso degli anni, hanno sempre ribadito a noi figli che lo studio e l’impegno sono la strada maestra per raggiungere i nostri obiettivi. Un insegnamento che cerco di trasmettere ai miei studenti, combattendo ogni malinteso senso di uguaglianza e cercando invece di premiare i giovani motivati, bravi e capaci, tra cui, molto spesso, vi sono proprio i ragazzi più svantaggiati. Certo, a volte la vita può riservarci delle sorprese, costringendoci a cambiare i nostri piani. Ma, se mettiamo a frutto i talenti che possediamo, moltiplicandoli, possiamo diventare abili come dei navigatori satellitari: parafrasando un esempio di Papa Francesco, anche se sbagliamo strada, alla fine riusciremo a trovarne un’altra per raggiungere la nostra meta.