Il Massimo salernitano entra nel pantheon dei teatri raccontati da una fotografa che, nella sua quarantennale carriera, ha ritratto i più noti volti dell’opera lirica, del teatro di prosa, delle performing arts e dei teatri di tradizione all’italiana: Silvia Lelli, fotografa di fama internazionale, con suo marito Roberto Masotti, ha dato vita nel 1979 alla sigla Lelli e Masotti, nome sotto il quale è raccolto un monumentale archivio fotografico, talmente significativo e di valore da essere definito, nel 2018, “Bene di interesse storico “dal Ministero dei Beni Culturali.
Ben 140 fotografie di Lelli e Masotti, la scorsa primavera, sono state esposte a Palazzo Fruscione, con una mostra, organizzata dall’associazione “Tempi Moderni”, denominata “Sguardi” e proprio in quei giorni la fotografa ravennate ha sviluppato a una quarta sezione della mostra, con uno shooting site specific, intitolata “Ombra e Penombra”, in omaggio alle suggestioni ricevute durante gli scatti all’interno del Teatro Verdi e visitabile fino a dicembre.
Le foto in esposizione sono state realizzate all’interno del teatro in momenti di pausa, a porte chiuse e durante le prove e la prima dello spettacolo Manon Lescaut andato in scena lo scorso 14 aprile con la direzione del maestro Daniel Oren.
Si tratta di foto, che come un diario intimo e introspettivo (come ci racconta Alfonso Amendola), sono capaci di capire i luoghi, compenetrarsi con il teatro fino a scoprirne i segreti.
Lelli instaura un rapporto personale con il Teatro Verdi, lo affronta come una creatura viva e ne studia le viscere. Esalta le assi di legno, i tiraggi a fune, le americane e i fari. Ritrae un teatro che non è solo spettacolo, piuttosto una commistione tra artigianato, maestria, attenzione al dettaglio.
Nelle foto esposte ha ritratto due corpi: il teatro e il suo direttore uniti dalla scena, dalla maestosa rappresentazione della Manon Lescaut. È tornata a ritrarre il maestro dopo anni e ha ritrovato il suo sguardo, colto la corporeità, i suoi gesti, le sue espressioni in una direzione che coinvolge tutto. Perché tra personaggi, comparse e maestranze si compone il Teatro Giuseppe Verdi. E di questa portentosa macchina teatrale ci racconta in maniera potente e poetica gli spazi e coloro che, per un breve periodo, li abitano.
La fotografa Silvia Lelli ci ha onorati di raccontarci il senso di questa esperienza, con una breve intervista che qui riportiamo:
Quale è stata la sua prima impressione del Teatro Verdi? Cosa ha attirato inizialmente il suo sguardo?
È stato come entrare a casa: conosco questi spazi, poiché i teatri all’italiana dell’Ottocento, dove l’opera lirica ha ancora un’importanza enorme, hanno degli elementi comuni, una pianta e un’organizzazione degli spazi sia scenici che interni (camerini, sale prove) simili tra di loro. L’ho trovato immediatamente uno spazio familiare, a colpirmi subito è stato l’ingresso che in piccolo mi ha ricordato l’Opera di Parigi, per come all’ingresso si accede da una scalinata. Sono stata guidata dal segretario artistico (maestro Antonio Marzullo ndr) e mi sono immediatamente innamorata del palcoscenico vuoto, in fondo al quale, nel retro del teatro, c’è una finestra: in quel momento era aperta e faceva filtrare la luce del giorno. Era identica a quella del Teatro Verdi di Busseto, dove volli realizzare una fotografia, senza che nessuno accendesse le luci, che dava la stessa sensazione di buio e luce. Poi ho visitato gli altri spazi come il sottotetto: le soffitte raramente vengono usate in questi teatri, a Salerno invece è rimasta intatto, come alla sua costruzione, e viene utilizzato per le prove di regia. Questo sottotetto era utilizzato per le prove al Teatro Municipale Romolo Valli di Reggio Emilia, dove il palcoscenico era così grande da permettere di adoperare la soffitta per il corpo di ballo. Mi hanno colpito tanti altri elementi: i tiri utilizzati per le scene, ancora a mano, ma resi più funzionali da nuovi meccanismi. C’è un ballatoio sopra al palcoscenico che permette di vedere i movimenti delle scene tramite i tiri. Nel sottopalco poi ci sono dei meccanismi, ora non funzionanti, ma ancora intatti, che permettevano di alzare e abbassare il palcoscenico, sono persino ancora visibili gli argani originali.
È un teatro che mi ha riportato al passato che però a questo passato non è rimasto ancorato e porta in scena spettacoli moderni utilizzando metodi del teatro dell’Ottocento.
Nella sua visione del teatro che influenza ha avuto la sua laurea in architettura?
Il mio percorso di studi ha avuto un’importanza enorme, da sempre profondamente legata alla fotografia.
A partire dallo studio della storia dell’arte, la prospettiva e la composizione dell’immagine (come in Piero della Francesca) è stata fondamentale fino a diventare parte del mio patrimonio culturale, una formazione nell’inquadratura che non mi ha mai lasciata.
Questa formazione mi aiuta a fotografare in particolare il teatro di parola e l’opera lirica, la fotografia di scena è più difficile senza uno studio sulla composizione dell’immagine
Cosa ne pensa della decisione del Comune di Salerno di aprire il Teatro Verdi anche alle visite guidate?
In Italia sono tantissimi i teatri di tradizione dell’Ottocento, o anche il Farnese di Parma e l’Olimpico di Vicenza del Seicento, che sono delle meraviglie da visitare. Durante uno spettacolo c’è modo di vedere soltanto i luoghi più tipici per il pubblico come possono essere un foyer o i palchi e non c’è davvero la possibilità di visitare il teatro. Ogni città dovrebbe prevedere le visite guidate dei teatri, dunque è una grandissima opportunità per turisti e visitatori.
Che impressione ha avuto della città di Salerno? Dopo questa mostra ha sviluppato un legame con la città?
Non ero mai stata a Salerno prima: è stato amore a prima vista. A mio parere ha in particolare due cose bellissime; innanzitutto lungomare subito visibile, moderno e facilmente fruibile, dove c’è spazio per tutti, dai bambini che giocano liberi alle persone in bicicletta. C’è poi la parte storica in cui ho vissuto durante la mostra a Palazzo Fruscione, ritengo che sia un vero peccato che il palazzo non sia sempre aperto, per noi è stata un’occasione poter esporre lì. A Salerno inoltre si mangia splendidamente, le persone sono affabili, quindi il fascino del sud c’è tutto, per non parlare dei dolci!
Nelle sue esperienze nei teatri c’è qualcosa che l’ha particolarmente colpita?
Il teatro per me rappresenta in bozzolo in cui io mi rifugio. Anche nei periodi in cui ho lavorato al San Carlo o alla Scala sono sempre stata in tensione prima di arrivare, poi però, appena supero la portineria ed entro in quegli spazi, magicamente mi sento protetta e riesco a lavorare serenamente. Magari arrivi al mattino, con il foyer ancora assonnato e ti arriva qualche suono, da un musicista che prova, qualche vocalizzo, un martello che batte o persino il rumore (in realtà suono) di un’aspirapolvere: questi suoni mi confortano molto e mi permettono di iniziare il mio lavoro.
Com’è stato lavorare con il maestro Oren a distanza di anni?
È stato un incontro che aspettavo con ansia, l’avevo fotografato quando entrambi eravamo giovani. Lo fotografai quando andai insieme al maestro Arruga per una sua intervista, e il maestro riteneva che fosse uno dei direttori emergenti che meritava di essere conosciuto maggiormente.
Ho ritrovato lo stesso carattere semplice e affabile, gentile. Un grande direttore, molto esigente come ho potuto notare durante le prove. Ci siamo ritrovati con affetto, molto facilmente.
Cosa consiglierebbe a un giovane che vuole lavorare oggi nel campo della fotografia?
Questa è la domanda più difficile, come lo è definire oggi la figura del fotografo. Ci ho pensato molto in occasioni in cui posso trasmettere la mia esperienza ai giovani. Consiglio questa professione a chi la sente come vocazione, come qualcosa d’impellente. Non deve essere una soluzione di ripiego, ci saranno tutti i problemi di una libera professione che è molto cambiata e che di certo non fa diventare ricchi. Ma se c’è una passione bisogna seguirla: sarà dura, ma tutto si affronta se l’argomento piace davvero.
Non è la tecnica a fare la differenza, il fotografo deve essere una persona colta, curiosa e continuamente aggiornata su quello che fa. È dunque necessario non smettere mai di studiare, non tanto gli altri fotografi quanto l’arte in generale e la lettura della poesia, e soprattutto alimentare sempre la propria fantasia.
Com’è stato conciliare la sua professione con la sua famiglia e la sua vita personale? Crede che per una donna sia più difficile?
Per una donna è sempre più difficile, come al solito bisogna dimostrare di essere più brave di un uomo.
Io non ho avuto troppe difficoltà essendo molto combattiva nel mio lavoro e sono stata aiutata da un compagno anche lui fotografo che ha condiviso con me la vita familiare e professionale. Consiglio di trovare un compagno che possa condividere tutto. E ora, fortunatamente, le coppie si stanno muovendo in questa direzione. Anche nei musei, dove sono esposti più foto di uomini che di donne, pian piano questo sta cambiando.
L’incontro con Silvia Lelli è stato un momento particolarmente fortunato nella vita della città, ha dato vita a una sinergia unica che è ancora possibile, attraverso le sue opere, ammirare al Teatro Verdi.