Se al Monte di Pietà va in scena la svendita quotidiana di Venezia

Alla Fondazione Prada mostra del visionario artista svizzero Christoph Büchel. Si entra e ci si immerge in un mondo alla rinfusa che ha il suo baricentro nel luogo dei banchi dei Monti di Pietà. Più che le parole sono le visioni a renderci il senso del debito come radice misera della società e del potere associato a questa terribile condizione umana: vestiti di grandi e piccoli, scarpe, cappotti, biciclette, motorini, bambole e minutaglie di ogni tipo accatastate a casaccio e alla disperata. In effetti, quale luogo migliore di Venezia e di Ca’ Corner della Regina, sede dell’antico Monte di Pietà veneziano dal 1834 al 1969, per inscenare questo caleidoscopio di oggetti? Il connubio denaro-debito si avvolge nella storia veneziana attraverso una critica lucidissima che sfocia nella mercificazione della città per il suo incontenibile over tourism e nell’arte della Biennale ad esso asservito

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La mostra Monte di Pietà alla Fondazione Prada di Venezia è del visionario artista svizzero Christoph Büchel ed è aperta fino alla fine di novembre 2024, con l’immagine in alto che raffigura l’ingresso della mostra o di un compraoro.

“Fuori Tutto”, “Fallimento Totale”, “Vendesi”: surreali manifesti sono apparsi sulla facciata di Ca’ Corner della Regina, sede della Fondazione.

Si entra e siamo immersi in un mondo alla rinfusa che ha il suo baricentro nel luogo dei banchi dei Monti di Pietà. In assenza di qualsiasi tabella descrittiva gli oggetti ci parlano di quello che sono stati e a cosa sono serviti.

Più che le parole sono le visioni a renderci il senso del debito come radice misera della società e del potere associato a questa terribile condizione umana: vestiti di grandi e piccoli, scarpe, cappotti, biciclette, motorini, bambole e minutaglie di ogni tipo accatastate a casaccio e alla disperata. In effetti, quale luogo migliore di Venezia e di Ca’ Corner della Regina, sede dell’antico Monte di Pietà veneziano dal 1834 al 1969, per inscenare questo caleidoscopio di oggetti, apparentemente senza senso alcuno.

Il connubio denaro-debito si avvolge nella storia veneziana attraverso una critica lucidissima che sfocia nella mercificazione della città per il suo incontenibile over tourism e nell’arte della Biennale ad esso asservito.

All’inizio del percorso di mostra, ci immergiamo nel manifesto “Urgent Call for Radical Action: Halt the Venice Art Biennale Now”, in cui troviamo un pressante invito alla comunità internazionale per ripensare il sistema-biennale, a favore del rispetto della cittadinanza e contro la speculazione e la commercializzazione dell’arte. «Venezia non è più una città», leggiamo nel primo punto, «è un parco giochi distopico per ricchi […] Il turismo incontrollato ha trasformato la nostra cultura in una merce per il miglior offerente».

Al Monte di Pietà, va in scena la svendita quotidiana di Venezia. Come nell’inferno dantesco, percorriamo i vari luoghi del palazzo in cui troviamo un girone per ogni dannato: dalla stanza dei gamer con i resti della cena, al boudoir a luci rosse, fino al casinò e alle postazioni per il monitoraggio di una criptovaluta appositamente coniata per l’occasione, e chiamata iperbolicamente Schei (in veneziano, denari).

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Una mostra come poche per la sua unicità sulla condizione di noi oggi in una continuità inimmaginabile con il passato dei Mondi di Pietà: il denaro come sterco del diavolo. Uno sguardo disarmante sulla condizione debito-credito, per molti senza redenzione e possibilità di riscatto. Non sarà proprio così nella storia dell’uomo ma spesso il denaro quando non si possiede diventa una scorciatoia per cadere nel baratro della miseria e della disperazione.

La disseminazione di provocazioni dell’artista è di totale dissacrazione come i diamanti sintetici creati con le sue feci, parte dell’immenso archivio del Monte dei Pegni del Banco di Napoli (il cui Fondo Apodissario è oggi patrimonio UNESCO) in una stanza che trascina in un vortice chi entra, il display che aggiorna in fantastiliardi il debito pubblico dell’umanità (anche se al G7 non se ne sono ancora accorti).

Addendum (da una ricerca che ho effettuato importo notizie atte a illuminare i rapporti tra Monti di Pietà e Casse di Risparmio)
Il 6 ottobre 1806 fu istituito a Venezia, dopo diversi tentativi falliti fra il XVI e il XVIII secolo, un Banco Pignoratizio Comunale, frutto dell’unificazione dei tre vecchi banchi del ghetto ebraico – il banco “bianco”, il “verde” e il “nero” – voluta dal governo napoleonico. Attraverso gli statuti venne stabilito che il Banco fosse amministrato da una deputazione mista formata da tre cittadini cristiani e da tre ebrei (ai quali, con l’estensione a Venezia del Codice napoleonico, era stata riconosciuta l’eguaglianza civile con il resto della popolazione). Il Banco avviò la propria attività con un fondo iniziale di 130.000 ducati, frutto dei patrimoni unificati dei tre banchi ebraici. Con la caduta della Serenissima Repubblica di Venezia (1797) era iniziato per la città un ventennio di instabilità politica accompagnata da guerre, disordini, carestie ed epidemie: ciò aveva aumentato il bisogno di credito da parte della popolazione e ben presto le casse comunali si erano rivelate insufficienti a sostenere le necessità finanziarie del Banco. Così, tra il 1820 e il 1821, il governatore delle Provincie Venete Carlo Inzaghi propose la costituzione a Venezia di una locale Cassa di risparmio che, associata al Banco Pignoratizio, avrebbe potuto finanziare attraverso la raccolta del risparmio le operazioni di prestito su pegno: la Cassa di Venezia venne così aperta al pubblico il 12 febbraio 1822. Denominato Monte di Pietà nel 1834, l’Istituto si trasferì poco tempo dopo in una prestigiosa sede sul Canal Grande, il palazzo Corner della Regina. In questo periodo il Monte fu vittima di una serie di malversazioni e di ruberie commesse da alcuni impiegati, che gli costarono una perdita di circa 130.000 lire. Operazioni di prestito su pegno particolarmente avventate e di ammontare piuttosto elevato, che costarono al Monte un’ulteriore perdita di mezzo milione di lire, contribuirono poi ad aumentare il clima di sfiducia dei depositanti, proprio in un momento di grave crisi economica e politica per la città, coincidente con lo scoppio dei disordini del 1848. Così, il 29 marzo dello stesso anno, Daniele Manin comunicò a nome del Governo la concessione di un finanziamento di 630.000 lire al Monte e alla Cassa al fine di ripianare le perdite. Con il ritorno degli austriaci venne istituita una commissione per dotare la Cassa di Risparmio di un’amministrazione propria. Approvato il nuovo statuto il 30 giugno 1853, l’Istituto poté impiegare i depositi non più solo per finanziare il Monte, ma anche in mutui ed in operazioni diverse. Solo con lo statuto approvato con decreto 22 luglio 1886 si giunse alla totale indipendenza fra le due istituzioni. Nel 1927 il vecchio Monte, in gravi difficoltà finanziarie, venne assorbito dalla Cassa di Risparmio di Venezia, che così istituì al proprio interno una sezione pegni.

Alla fine della visita mi sia consentita una breve nota dal sapore folkloristico. Da mare e monti si strombazza l’educazione finanziaria quale panacea alla diffusa ignoranza finanziaria del popolo. Eppure una mostra del genere sta a dimostrare che abbiamo insegnato al mondo l’arte di fare banca per tutti. Qualcosa è andato terribilmente storto e mi fermo qui.

Gerardo Coppola

È stato nella carriera direttiva prima e in quella dirigenziale poi di Banca d’Italia, occupandosi delle funzioni istituzionali in campo bancario e finanziario. Oggi è scrittore, saggista e giornalista e segue numerose iniziative a carattere divulgativo e comunicativo. Nel 2017 ha fondato il blog www.economiaefinazaverde.it

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