È appena uscito e sarà presentato per la prima volta al pubblico alla fine di questo mese di ottobre il libro di poesie “Scrive l’uomo sbagliato” (Il quaderno edizioni) di Mariano Rotondo, brillante cronista napoletano che ha incrociato sulla sua strada la poesia, un incontro struggente che ha fatto balzare davanti ai suoi occhi lo scandalo del senso nel quale si condensa la vita, specie quando ci mettiamo in ascolto di essa. Pubblichiamo, di seguito, la prefazione al volume di Andrea Manzi.
Sono convinto che la poesia non sia, in sé, la manifestazione visibile e compiuta di una interiore libertà. Nulla è definito in essa, ma tutto diviene, si affina, si colora. O si disperde, imboccando strade che, a distanza di anni, ritroviamo sotto forma di labili tracce per nuovi insospettabili percorsi della nostra esistenza di attivisti dell’insoddisfazione. La poesia, pertanto, più che un atto concreto di libertà, è una ricerca continua alimentata dalla logica del paradosso, da un rapporto ambiguo e sfuggente tra reale e verosimile; ricerca che attiva stati sensoriali profondi in costante contatto con rappresentazioni intime. Questo miscuglio, ad alto tasso emozionale, raggiunge il lettore che, immedesimandosi, “riscrive” i versi, nel senso che ne risillaba le parole, ne elabora le pause e i silenzi sottesi, adattandoli ai propri vissuti, carpendone inquietudini, visioni, attese, passioni, che gli consentono di riattraversare a ritroso la propria vita. Alda Merini affermava che le parole dei poeti “fan ben più rumore di una dorata cupola di stelle”. Un rumore che, dopo il fragore dell’impatto con la nostra sensibilità, continua a vivere in echi lontani e in immagini riaffioranti come l’acqua sorgiva. Un fenomeno intimo e profondissimo che ricorda i segni lasciati dal cinema nella nostra mente: anche la settima arte, infatti, affronta la doppia natura del reale e spinge gli spettatori a porsi domande sulla loro vita.
Il rapporto tra la composizione poetica e il suo impatto con il mondo esterno – mondo esterno che, poi, è costituito da noi tutti, donne e uomini appesi alla disperata speranza del linguaggio – è l’elemento più sorprendente di questa raccolta di versi di Mariano Rotondo, giornalista curioso, attento ed esperto, che ho conosciuto e apprezzato, negli anni scorsi, sulla frontiera aspra dell’informazione, come compagno di lavoro dotato dei migliori e più affinati mezzi professionali. Certo, è stata una sorpresa ritrovarlo in un’area espressiva molto diversa da quella brontolante della cronaca quotidiana, ansioso di cogliere – lo si comprende già da una prima lettura dei suoi componimenti – gli umori di una umanità intessuta di immaginario. Sono umori che Mariano, ad un certo punto della sua vita, ha scoperto dentro di sé, percependoli intrecciati con la realtà quotidiana, capaci di addolorarlo ma anche di allargargli le conoscenze e fecondargli gli stati d’animo. Quando ciò accade la poesia, al di là del valore letterario, diventa activitas, liberazione dal bisogno di tacere. Un dato, questo, non trascurabile della raccolta “Scrive l’uomo sbagliato”, titolo che simboleggia il transito di una sensibilità umana dalla notte che spegne i colori a quella che, volendo, può diventare più colorata del giorno, com’era la notte stellata di Van Gogh. L’autore, infatti, non si inoltra lungo il viale della poesia sospinto dall’intento di dar voce alla sofferenza degli altri – operazione rischiosa che potrebbe sfociare in stentorei sociologismi o in affermazioni parodistiche – ma tenta innanzitutto di calarsi nella propria sofferenza per liberare quelle “emozioni parassite” che ristagnano nelle profondità dell’animo e chiedono di potersi attivare per emergere in superficie, scrollandosi di dosso la patina delle passioni tristi. È una tensione inconscia, che poi diventa faticosamente consapevole, verso l’integrazione della personalità e l’acquisizione di nuovi stadi di consapevolezza, doppio orizzonte che l’autore si auto-rappresenta e insegue attraverso una parola che è, ad un tempo, incubo e lenimento.
Non è semplice la risalita. Pessoa, in proposito, temeva “le tenebre carbonizzate di silenzio” e Mariano Rotondo prende coscienza, nel contatto ravvicinato con la poesia, che “Il mio inverno è contro di me, / come ognuno ha il proprio freddo. / Basta accettare che ci sarà e dire: / Ci riscalderemo lo stesso e passerà”. Una sorta di stadio dinamico, di spinta verso l’emersione, che passa per l’accettazione del dolore e integra il senso delle parole con un periodare poetico sofferto, come e più di una seduta psicoanalitica. La poesia diventa così farmaco naturale, terapia alternativa o di supporto, docile elemento di una rivoluzione personale inscenata per tornare nel mondo senza più il fardello delle ossessioni di colpe private e collettive (“Che ne sapete dei miei lutti”, confessa l’autore, in un accorato verso, alla virtuale platea dei suoi lettori). Ma l’umanità è spesso pregiudizialmente ostile, non accoglie ma scaccia e a quel punto, come un tarlo nell’animo, spunta la tentazione di sentirsi “sbagliato”. Uno stigma. “Nasci sbagliato. / Continui sbagliato. / Nessuno te lo dice. / Resti sbagliato. / Poi ti fanno male. / E te lo dicono: / sei sbagliato / … / E continui a essere / sbagliato per rifarti. / Sbagli perché / non vuoi sbagliare”. Sembra il monologo di un poeta maudit che recita la propria passione cupa, operando “inter-codice” in uno spazio scenico dove la parola trasforma la potenzialità del verso in un potente atto di autodenuncia catartico, che sorprende e addolora: “Sono fanciullo in coscienza, / istinti nella mente da liberare, / voragini da nascondere nelle / notti dove non c’è mai l’amore.” È la paura della notte-incubo che, se non compresa ed elaborata, può trasformare la vita in un luogo di tortura nel quale gli interrogativi non hanno risposta e si resta sospesi sul nulla, soltanto in compagnia dell’anima antica e malinconica delle cose. Una condizione penosa, che l’autore rivive attraverso fotogrammi scheggiati dal tempo, attimi afferrati a malapena da parole malferme o mute come gli incubi che gli ingombrano la mente e come le idee deliranti insediate nel suo cuore buono, dov’erano un tempo i chiari di luna (“Punitemi col corpo, sento meno dolore. / Tiratemi uno schiaffo invece del silenzio…”).
È tra queste emozioni tormentate e imperiose che Mariano Rotondo sigla la sua alleanza con la poesia, nel tentativo di liberarsi dagli incubi personali che sono, in fondo, quelli della nostra delusa e smarrita contemporaneità. “Talvolta, per risalire, serve lanciarsi più in giù possibile”, confessa l’autore, con prensile lucidità, nella nota esplicativa del testo. Le vite si riedificano, infatti, dal basso. È una verità che conoscono bene coloro che soffrono del male di vivere, i terapeuti e più ancora i poeti. Il dolore va attraversato senza indugi fin dalle sue più remote apparizioni e il valore curativo della parola letteraria è indiscutibile. In particolare, la poesia, qualunque sia la sua efficacia stilistica, lascia emergere lo scandalo del senso che riappare dal letargo per trasferirsi in una lingua che, più di altre, sa raccontarlo. Compare così, come in questa raccolta, il tirante che ci solleva dalla palude del pensiero buio e ci protende verso la vita.