Le impronte della storia caratterizzano gli spazi e ne fanno ripercorrere “al fotofinish” le vicende e gli avvenimenti. Tra questi, indelebilmente stampati nella memoria storica delle popolazioni del Mezzogiorno, emergono gli attacchi dei terribili predoni turchi provenienti dal mare. Ne offrono ancora oggi una testimonianza diretta i paesaggi delle coste tirreniche e adriatiche, contraddistinti dalla presenza di numerose torri di difesa e avvistamento. Torri costruite per fronteggiare un problema di antica data, visto che nel Mediterraneo – ricorda Braudel – la pirateria è un’attività iniziata con la stessa storia: ad assaltare le navi per depredarne i carichi erano Fenici, Greci, Illiri, Liguri, Etruschi e in pratica gli appartenenti a ognuna delle popolazioni che gravitava su quel bacino, inclusi gli antichi egizi. Mark Woolmer cita in proposito le “Lettere di Amarna” (1360-1332 a.C. circa), 362 atti di corrispondenza diplomatica tra l’amministrazione egizia e i suoi alleati e vassalli, da cui si ricavano utili informazioni sulla situazione della pirateria nel Mediterraneo orientale all’epoca del Nuovo regno.
Le torri costiere
Impronte storiche
Per quanto riguarda le coste dell’Italia meridionale, come attestano le numerose ricerche sull’argomento – tra cui gli studi di Vincenzo Aversano, Flavio Russo, Mirella Mafrici, Valdo D’Arienzo, Achille Mauro, Simonetta Conti e Gian Franco Macrì, Luciano Santoro, Giorgio Verdiani – le prime testimonianze della presenza di torri costiere risalgono all’epoca romana, proseguendo sino al regno di Federico II di Svevia. Ma solo in età moderna, sul finire delle prime guerre dinastiche franco-spagnole del XVI secolo, le fortificazioni litoranee rientrano in un piano difensivo organico e geograficamente continuo, che avrebbe dovuto trasformarle in presidi collegati visivamente tra loro e dotati di artiglierie, per consentire di tenere sotto tiro ogni settore della costa, eliminando così qualunque soluzione di continuità nella difesa. Nonostante la bontà del piano, il sistema, per una serie di problemi di ordine economico, politico e sociale, non avrebbe funzionato a dovere, al punto che molte torri sarebbero crollate o sarebbero state costruite quando ormai non servivano più. Fatto sta che la loro presenza, complici il degrado e lo stato di abbandono in cui oggi troppo spesso versano, più che trasmettere un senso di potenza ed efficace protezione, ricorda soprattutto la brutalità degli attacchi pirateschi e corsari inflitti per secoli alle popolazioni dell’Italia meridionale (le incursioni cessano infatti del tutto solo con la conquista francese di Algeri nel 1830).
Ma chi erano i predoni del Mediterraneo e da dove salpavano con le loro navi corsare?
Luoghi di elezione erano le coste tirreniche e adriatiche dell’Italia e dell’Albania, ma anche le città costiere del Nord Africa, da dove pirati e corsari prendevano il largo. I primi, spesso crudeli, spregiudicati, indifferenti a qualsiasi regola, erano veri e propri briganti del mare, che veleggiavano a bordo di imbarcazioni agili e leggere per inseguire e rapinare le navi, impadronirsi del loro carico e arricchirsi. I secondi, invece, al servizio di Stati belligeranti – l’Impero Ottomano, innanzitutto – operavano a bordo di vascelli autorizzati a partecipare ad azioni di guerra contro navi nemiche, che potevano in tal modo essere depredate e distrutte per contrastare i commerci e i rifornimenti dei rispettivi stati di appartenenza. La battaglia di Lepanto, con la vittoria dell’alleanza cristiana sui musulmani, rappresenta uno degli eventi storici più importanti per la guerra contro i pirati, astuti e feroci, ma dotati anche di notevoli capacità militari e strategico-politiche, giunte in alcuni casi a consolidarsi in un vero e proprio governo del territorio. Alcuni di loro sono ricordati ancora oggi quali leggendari protagonisti di terribili e audaci incursioni contro le popolazioni rivierasche, non solo del Mezzogiorno d’Italia: i temibili fratelli Barbarossa, lo scaltro e avveduto Dragut Rais Bassà, “terrore del Mediterraneo”, Sinan Pascià “il Giudeo”. .
In particolare a Salerno si ricorda il celebre pirata Ariadeno (Khair ad-dīn) Barbarossa, ammiraglio della flotta ottomana dal 1533 al 1546. Nella cripta del Duomo di San Matteo due affreschi realizzati all’inizio del XVII secolo da Belisario Corenzio rievocano il leggendario episodio dell’assalto dei turchi alla città fermato dall’intervento miracoloso del suo santo protettore.
Tra i protagonisti di queste vicende vi sono anche i nemici dei pirati e corsari, come il viceré don Pedro Alvarez di Toledo, giunto a Napoli dalla Spagna il 4 settembre 1532 per firmare un provvedimento, ripreso e attuato nel 1563 dal successore, don Parafan de Ribera duca d’Alcalà – già viceré di Catalogna, insediato a Napoli il 12 giugno 1559 – per porre un freno al moltiplicarsi di scorrerie predatorie sulle coste del Regno di Napoli, aggravate dall’alleanza antispagnola stretta, alla fine dello stesso secolo, tra Inghilterra, Paesi Bassi e Francia.
In un clima di tensioni economiche, sociali e politiche, reso ancor più plumbeo dall’Inquisizione spagnola e dal succedersi di una serie di pesanti calamità (carestie, terremoti, epidemie), fu stabilito che le Università (ossia i comuni) più esposte al pericolo corsaro dovessero provvedere alla fortificazione costiera degli abitati e alla costruzione di vere e proprie torri, in previsione di possibili attacchi dei Turchi, nonché della flotta francese. La tipologia costruttiva era doppia: a pianta quadrata (più costosa ed efficace) e circolare (più economica), già diffusa nel periodo svevo-angioino e poi rimasta a esclusivo beneficio delle torri innalzate a spese di comunità limitrofe. La loro costruzione rappresentava un’indubbia occasione di ingaggio e guadagno per le maestranze locali, incluse quelle delle zone interne, giacché il sistema difensivo prevedeva la realizzazione di una serie di torricelle aggiuntive, a vista di quelle costiere, per trasmettere i segnali di pericolo anche alle popolazioni distanti dal mare. Nonostante ciò, le popolazioni lontane dalla costa talora si rifiutavano di contribuire alle spese di costruzione delle torri, il che fu una delle cause dei rallentamenti e degli inconvenienti di varia natura, ostative del loro corretto funzionamento (proteste delle collettività gravate dai costi di fabbricazione; frodi commesse dai costruttori; scarsa manutenzione; abbandono del posto di guardia da parte dei soldati; distruzione turca delle torri lasciate incompiute per mancanza di fondi). Così molte postazioni costiere fatte costruire dal Ribera erano già in rovina alla fine del sec. XVI, sia per la scarsa manutenzione, sia per le frodi commesse dai partitari, ossia dagli imprenditori che si erano aggiudicati l’appalto dell’opera pubblica.
Armi e presidi
contro i turchi
La provincia di Principato Citra (Salerno) era una delle zone più esposte al rischio di attacchi, giacché il suo golfo, protetto dai diversi gruppi montuosi che si estendono da nord-ovest a sud-est, era privo di protezione lungo il litorale, nell’alternarsi di coste alte e frastagliate con ampie distese sabbiose, concentrate nelle pianure alluvionali del Sele e dell’Alento. Queste ultime erano divenute acquitrinose dopo che, dal Medioevo in poi, le coste del salernitano, anche in virtù dei prosperosi traffici commerciali della Repubblica marinara di Amalfi, avevano subito numerose aggressioni ed erano state abbandonate dalle collettività.
Gli assalti dei Turchi, in particolare, s fanno incalzanti tra il 1555 e il 1558: il provvedimento del Ribera, pertanto, potenzia innanzitutto il sistema difensivo e di avvistamento costiero del Salernitano, pur se con i limiti determinati dal non avere il governo spagnolo investito alcun capitale nella sua realizzazione, accollandone invece le spese ai comuni più esposti alle incursioni: nel 1590 si contavano 339 torri, di cui 173 erano però già in rovina. Circostanza non insolita, visto che non erano rari i casi in cui costruttori disonesti, abili nell’erigere muri vuoti, usavano abitualmente materiali inadeguati, come malta scadente e acqua di mare. Di questo mondo brulicante di miserie, brogli e truffe offre fedele testimonianza un toponimo originale come Torre “Spacco della pietra”, di Camerota – cosiddetta appunto perché nel 1600, dopo appena due anni dalla costruzione, crollò per “mala fabbrica – ma anche un interessantissimo documento sui diritti e doveri degli addetti alla sorveglianza delle torri costiere (Caporali, Guardiani e compagni), da cui si evincono facilmente non solo le condizioni difficili e miserrime in cui erano costretti a vivere ma anche gli abusi di potere che, approfittando del proprio ruolo, esercitavano sulla popolazione con varie forme di estorsione e ricatto.
Sono altresì particolarmente interessanti i nomi di altre torri edificate nel Cilento, ancora oggi molto esplicativi, come rilevato da alcuni studi: è il caso della Torre del Buondormire, nel golfo di Policastro, quasi evocante le terrificanti aggressioni notturne dei Mori, che costringevano gli abitanti dei centri prossimi alla costa a fughe precipitose; ma anche quello della Torre Calamoresca, presso Scario, a sud-ovest della precedente, denotante appunto gli odiati e temuti musulmani berberi, che spesso si nascondevano proprio nelle cale per fare rifornimento e ripartire verso altri luoghi da depredare. L’area in cui sorge, infatti, era usata forse anche come ‘testa di ponte’ per incursioni in luoghi vicini, come sembrano confermare la prossimità di altre torri consimili, tra cui quelle di Infreschi e Cala Bianca, la presenza di un porto naturale e di molte sorgenti d’acqua dolce (‘acquate’), legate alla costituzione calcareo-dolomitica delle rocce a picco sul mare (permeabili e di colore chiaro), indispensabili rifornimenti dei navigli turchi. A una difesa armata si riferiscono invece Torre delle Armi, Torre Petrosa e Torre del Mortaro, denotanti funzioni non limitate al semplice avvistamento, secondo le ripetute richieste presentate al governo spagnolo da parte degli abitanti delle zone più a rischio di attacchi dal mare.
Furono così erette oltre 300 torri lungo le coste, da Gaeta alla Calabria, diventate 313 nel 1567, 339 nel 1590 e 379 nei secoli successivi, con il passaggio del Regno di Napoli agli Austriaci (1707) e infine ai Borbone (1734). Ancora dopo l’Unità d’Italia, nel 1879, si contavano 359 torri, molte delle quali, però, cadenti, mentre le altre sarebbero divenute deposito d’armi, durante i moti del 1828 e luoghi di appostamento per soldati italiani e tedeschi. Ma, al di là delle stime numeriche e della decadenza materiale, le torri sono meritevoli di attenzione, valorizzazione e recupero, quali preziosi scrigni del passato ed elementi costitutivi del paesaggio che connotano. Un messaggio oggi più che mai prezioso, quale appiglio rassicurante per il disorientato uomo contemporaneo che, alle prese con una società in costante mutamento, può riscoprire, nella interazione tra passato e presente, la stella polare della propria esistenza attuale e futura.