La banalità dei miti e la necessità di averne a ogni costo indicano la decadenza di un’epoca.
Tra il (falso) simbolo e la vita di chi vi si specchia si aprono conti che vivono di attese, ma il saldo è quasi sempre passivo. I miti, d’altra parte, sono idee semplici che noi mitizziamo perché sono comode – insegnava ai suoi allievi il filosofo Umberto Galimberti. Non danno problemi, quelle idee, facilitano il giudizio, in una parola rassicurano. Credo che l’arrivo di Danilo Iervolino al vertice della Salernitana, dopo il controverso epilogo dell’era Lotito, sia stato appunto mitizzato per attenuare la vulnerabilità di una condizione, quella della serie A, precaria e fortunosa sin nella fase di acquisizione e di primo consolidamento.
Il pensiero del tifoso, si sa, pulsa di sangue bollente che scivola in vene e arterie fragilissime. Si infiammano e si raggelano, sia il pensiero che il sangue, con rapidità sconvolgente e lanciano l’animo all’attacco, non prefigurando l’esito possibile ma quello sperato, che viene contrabbandato per reale. In quest’altalena si smarrisce il contatto con la realtà e si dimentica che talvolta dietro il nuovo che avanza c’è il vecchio che resiste, anzi non c’è proprio nulla. Nel caso di Iervolino, non vi era alcuna esperienza specifica in un mondo, quello del calcio, ormai annesso al turbocapitalismo mondiale e nel quale resistono pochi padroncini di specchiata audacia e furbesca spregiudicatezza. Eppure, il tifo che è la malattia più trasformativa della realtà, in grado di rovesciare il quadrante della logica elementare, gli ha cucito addosso, con repentinità fulminante, la maschera del Robin Hood “pallonaro”, in grado di rovesciare il piano dell’evidenza, quello di essere un neofita del settore, peraltro senza visibili, consolidate e positive capacità imprenditoriali, fatta eccezione per la decantata e rapida collocazione nell’arena dei nuovi e sorridenti paperoni.
Certo, la ricchezza nella coscienza collettiva ha acquisito il vigore ineluttabile di un valore e di essa ci si innamora perché, nel deserto delle certezze, incanta e corrompe gli sguardi, posandoli su nuove primavere del destino. Su di essa si scrivono pagine di quotidiane commediole umane, spesso senza nemmeno chiedersi da dove provengano le fortune dei nuovi capitani del consenso mediatico e da quali relativi processi di rapida lievitazione. Tutto questo, però, non deve attrarre le attenzioni del tifoso salernitano, giustamente annichilito per l’incapacità di quest’ennesimo mito, promosso e retrocesso sul campo in pochi mesi, finanche di affrontare con energia la congiuntura sfavorevole. Resta così di questo giovane signore del Nolano e delle sue offerte a buon mercato di senso e di identità calcistica uno storytelling malinconico che ha acceso e spento i cuori dei tifosi, determinando la perdita di un’empatia nata peraltro troppo frettolosamente.
Con un piede e mezzo ormai in serie B, i tifosi potrebbero però fare uno scatto, distaccarsi da un presente oscuro e riannodare, per il futuro, il filo della migliore memoria calcistica della città. Occorrerebbe uscire fuori dalle communities nelle quali si mercificano le presenze individuali e ricostruire una vera comunità sportiva, che ha bisogno di storie non di illusioni. C’è gente che costruisce imperi sull’ingenuità popolare, che vive di scintillii e di virtualità, dal calcio all’impresa, all’università, alla politica. Sono dispensatori di offerte a buon mercato che, se solo ci si fermasse a pensare, esprimono la degradazione dei veri processi comunitari. Si confrontino i nuovi miti contemporanei con l’austera nobiltà di professionisti come don Peppino Tedesco, che diedero un apporto di competenza e d’anima in momenti calcisticamente difficili. Due mondi imparagonabili: l’esserci nella comunità sportiva dell’avvocato gentiluomo e il perdersi di oggi nella selva oscura dei proclami. Storie contro sequenze di favole spente.
È doloroso, certo, che si esca dalla serie A come epilogo di una vicenda costruita sulla narrazione di una forza e di una capacità che erano fragili. Tutto questo, però, costruisce esperienze, riarticola il senso del giudizio, la prudenza del realismo, armi critiche per un domani più maturo e moderno. Molte illusioni possono essere colte dapprincipio, quando le cose iniziano, senza cadere nel precipizio degli epiloghi infausti. I tifosi salernitani avrebbero potuto farlo, senza essere tentati dalla scelta e dalla pratica dell’improbabile. Un grande scrittore e poeta spagnolo, Francisco Gòmez de Quevedo, una delle figure più significative del barocco europeo, scrisse un romanzo picaresco dal titolo “Vita del pitocco”. Leggetelo perché ne vale la pena. È la rappresentazione grottesca e crudissima dell’umana miseria. Il protagonista, Don Paolo, cioè il pitocco, tenta in ogni modo di procedere in una arzigogolata ascesa sociale, registrando costanti insuccessi. L’inattuabilità del suo scopo, in un campionario di ambiguità e doppi sensi, si coglie subito. E non c’è proprio bisogno di arrivare all’ultima pagina, come nella vita purtroppo spesso accade.