Poveri con lo smartphone: tanti mezzi e poche competenze

Dal digital divide al learning loss: le nuove tecnologie imperversano ma creano nuove differenze e aumentano i divari già esistenti. E l'always on finisce per escludere...

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Disuguaglianze digitali, povertà educative, digital divide: ci sono diversi nomi per etichettare un fenomeno in crescita, le nuove forme di povertà. Si tratta di condizioni di indigenza, bisogno o necessità al passo con i tempi: non solo strettamente legate alla mancanza di connessioni o dispositivi ma anche all’assenza o alla scarsa presenza di competenze e capacità d’uso delle nuove tecnologie, in sintesi di educazione digitale. Qualcuno accenna alla definizione di nuovi poveri, che serve a etichettare chi – smartphone, tablet o pc alla mano – è titolare di nuove e inaspettate fragilità: le cosiddette povertà digitali.

In principio fu il digital divide

Non è solo questione di digital divide in senso tecnico. Con questa terminologia si è soliti etichettare il divario digitale tra chi ha un accesso adeguato a internet e chi, per vari motivi non ce l’ha; il problema delle nuove povertà digitali ha tante diverse sfaccettature.

Il termine digital divide è particolarmente caro a chi ha a cuore lo sviluppo delle connessioni a banda larga su tutto il territorio, a prescindere dalla conformazione geografica del nostro Paese. Dai dati Istat 2023 tratti dal dossier “I divari territoriali nel Pnrr: dieci obiettivi nel Mezzogiorno”, emerge che circa il 60% dei residenti nel Sud Italia ha difficoltà ad accedere a una connessione veloce. Ne consegue una forma di discriminazione: se con la società digitale diversi diritti sono esercitabili on line, il divario digitale diventa sempre più causa di un altro tipo di divario, quello socio-economico e culturale. Tra le categorie più a rischio esclusione ci sono anziani, donne inoccupate, immigrati e disabili, assieme a tutti coloro che, anche a causa dei bassi livelli di istruzione, non sono in grado di sfruttare a pieno gli strumenti informatici.

Il tema delle disuguaglianze digitali affonda le radici negli anni Novanta del secolo scorso, quando Al Gore vicepresidente del governo Clinton in America parla per la prima volta di digital divide per indicare il gap esistente tra i cosiddetti information haves e havenot.

Spesso si tende a parlare di “segregazione” più che di “esclusione”. E la segregazione può essere tecnico-geografica (si è esclusi perché l’area geografica non è fisicamente connessa), economico-sociale (che riguarda chi non ha i mezzi economici) oppure culturale (in riferimento a chi non ha gli strumenti culturali per leggere le opportunità offerte dalla Rete e dalle nuove tecnologie).

Uso massiccio e scarse conoscenze

Save The Children in una ricerca del 2021 ha evidenziato il problema delle nuove povertà educative digitali, associando la questione alla privazione delle opportunità di apprendere e sperimentare tramite l’uso responsabile, critico e creativo degli strumenti digitali. Insomma, l’assenza di competenze determinanti per crescere in un mondo globalizzato e sempre più connesso. È per questo che nel 2021 è stato elaborato uno strumento denominato AbCD (acronimo di Autovalutazione di base delle Competenze Digitali, nda): uno strumento che misura la mancanza di competenze informatiche di base ma anche quelle che ci consentono oggi di costruire una identità digitale, con la piena consapevolezza delle proprie azioni nei confronti di se stessi, del proprio benessere e del mondo che ci circonda.

Dalla ricerca è emerso che nel 2021 un numero elevato di minori è in condizione di povertà educativa digitale. La mancanza di competenze è associata a bassi livelli di reddito: minori conoscenze si riscontrano tra gli adolescenti che provengono da famiglie svantaggiate, che hanno un accesso più limitato ai mezzi tecnologici; ma il problema non è solo la mancanza di risorse: spesso latitano le conoscenze e le competenze. Un dato drammatico che ha evidenziato la necessità di politiche di largo respiro in grado di mobilitare tutti, non solo la scuola. Secondo una prima indagine, svolta in collaborazione con il CREMIT dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, un ragazzo su dieci non è in grado di riconoscere una password sicura; il 15% degli intervistati non è in grado di condividere lo schermo durante una videochiamata, il 29,3% non sa scaricare un file da una piattaforma della scuola e il 26,4% non riesce a identificare correttamente il menu di un sito dedicato alla didattica. Tra i dati più allarmanti c’è quello relativo all’età per l’iscrizione ai social: il 31,1% pensa che l’età minima per avere un profilo social sia inferiore ai 13 anni; il 30,3% non è in grado di rendere privato il proprio profilo Instagram; il 56,8% non conosce le implicazioni relative alla condivisione di contenuti offensivi sui social e il 46,1% non riconosce le fake news. Insomma, una serie di dati che evidenziano come le criticità non siano solo legata alla povertà intesa in senso tradizionale e come la mancanza di consapevolezza possa avere gravi conseguenze sul benessere psico-sociale dei minori e alimentare i fenomeni di dipendenza, cyberbullismo e pedopornografia.

Il learning loss post Covid

Uno dei primi allarmi sulle nuove forme di povertà, definite “learning loss”, fu lanciato dopo la pandemia: la chiusura delle scuole, il ricorso necessario alla didattica a distanza e la crisi economica derivata dalla situazione contribuirono a incrementare il numero dei “nuovi poveri”, generando una perdita educativa, che trova riscontro nell’aumento della dispersione scolastica, in un crescente numero di studenti senza competenze minime in matematica o in italiano, ed evidenziando le forti disuguaglianze digitali che risiedono nella mancanza di connessioni e strumenti e di competenze e capacità necessarie all’uso delle nuove tecnologie.

Con il termine learning loss si fa riferimento allo scarto tra il livello di conoscenze, abilità o competenze accertato prima e dopo l’interruzione delle attività scolastiche. Per stimare il learning loss del periodo del Covid19, Invalsi ha confrontato le prove del 2021 con quelle del 2019, ed è emerso che i peggioramenti riguardano soprattutto soggetti e contesti già in difficoltà e con bassi livelli di rendimento. Come per dire: il digitale può aumentare i divari già esistenti.

Tempi digitali, dati sull’uso delle nuove tecnologie

In Italia il 78,3% di bambini tra gli 11 e i 13 anni utilizza internet tutti i giorni e lo fa soprattutto attraverso lo smartphone. Il 43% dei bambini tra 6 e 10 anni nel Sud e nelle isole lo usa tutti i giorni. Nonostante questo utilizzo, nella mappa europea sulle competenze digitali dei 16-19enni, l’Italia si posiziona quartultima: la quota di giovanissimi con scarse o nessuna competenza è del 42%, contro una media europea del 31%. Restano le forti disuguaglianze nella dotazione di strumenti per la didattica innovativa e per la formazione di docenti con lo scopo di ridurre la povertà educativa digitale. I dati vengono dal XIV Atlante dell’infanzia “Giovani e Tempi digitali” di Save the Children, pubblicati lo scorso mese di novembre.  A inizio 2023 quasi la metà dei 3.400 adolescenti (fascia d’età tra gli 11 e i 19 anni) intervistati ha dichiarato di passare oltre 5 ore al giorno online; dati nettamente in aumento rispetto agli anni precedenti. I giovanissimi sfruttano la connessione per la messaggeria istantanea (usata dal 93%), per guardare i video (84%), frequentare i social (79%), giocare ai videogames (72,4%).

La strada della digital e media literacy

Si può essere più poveri con la Rete e le nuove tecnologie? Sì, perché le novità aumentano le possibilità di povertà. La tecnologia è un’ottima opportunità di sviluppo e democrazia ma va governata e resa universale altrimenti il rischio è quello di aumentare le disuguaglianze e il numero di esclusi della nostra società. Ne sono convinti anche i ricercatori del progetto internazionale ySKILLS, finanziato con fondi dell’Unione Europea, che hanno evidenziato come lo sviluppo di strategie per ridurre le disuguaglianze accentuate dalla digitalizzazione sia fondamentale. Il progetto si propone di capire quali competenze sono necessarie per bambini e giovani per massimizzare l’impatto positivo e a lungo termine dell’ambiente digitale. Il focus delle interviste realizzate, dunque, è stata l’importanza delle competenze digitali per i giovani, ma è stato fin da subito evidente la mancanza di programmi adeguati a continuare a sviluppare le stesse competenze anche negli adulti e negli anziani; un problema di non poco conto visto che le tecnologie sono in aumento in tutte le attività della vita quotidiana.

Di qui la necessità di intraprendere concretamente la strada della digital e media literacy, intesa come alfabetizzazione mediatica e digitale.

Barbara Ruggiero

Coordinatore del magazine, giornalista professionista, è laureata in Comunicazione. È stata redattrice del Quotidiano del Sud di Salerno e, tra le altre esperienze, ha operato nell’ufficio comunicazione e rapporti con l’informazione dell’Agcom (Autorità per le garanzie nelle comunicazioni). Già docente di progetti mirati a portare il giornalismo nelle scuole, è stata anche componente e segretaria del Consiglio di Disciplina dell’Ordine dei giornalisti della Campania.

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