Oriana Fallaci: Fiorentino parlo, fiorentino penso, fiorentino sento
L’Oriana, nata a Firenze nel 1929, prima di quattro sorelle. Tra familiari e conoscenti tutti la chiamavano così (compreso il nipote che diventerà suo erede). Per sua stessa asserzione, aveva un caratteraccio, e se voleva sapeva essere anche molto cattiva. Non si curava del parere della gente. Diceva quello che voleva dire: “Apro la mia boccaccia e dico quello che mi pare”. Faceva quello che voleva fare.
E fu così anche quando nominò Edoardo Perazzi suo erede universale, ignorando il fatto che egli avesse un fratello, che per questa scelta ingrugnì. Spinto dalla madre Paola, sorella dell’Oriana, Antonio andò per avvocati, volendo dimostrare che la firma in calce al testamento della zia fosse falsa. Purtroppo per lui, due perizie calligrafiche gli diedero torto. Quella firma era più che autentica.
Oriana fu malata per anni, e il suo cancro pieno di metastasi, da lei chiamato l’Alieno, la devastò, ma mai le tolse la capacità di intendere e di volere. Mori a 77 anni litigando sino alla fine con l’Alieno, perché per l’Oriana “la vita è bella anche quando è brutta”.
Respirò da inviata
i fumi della guerra
Giornalista e scrittrice di fama internazionale, conosciuta e rispettata persino dai grandi capi di stato, spese gran parte della sua vita come inviata di guerra, e della guerra respirò il fumo e le bombe. Infatti riteneva che il cancro ai polmoni di cui si ammalò non fosse dipeso dai sigarilli Nat Sherman che aveva sempre fumato, ma dall’aver respirato la nuvola nera del Kuwait.
In Messico si beccò anche tre proiettili, di cui uno alla gamba, cui residuarono fastidi perenni e anche un leggero zoppicamento, eppure: “Se non le avessi, queste tre cicatrici, mi sentirei infinitamente più povera…”
I suoi genitori erano fervidi antifascisti, e lei ne subì l’influsso sin da bambina. “In casa nostra i nomi di Hitler e Mussolini venivano pronunciati insieme a insulti terribili, maledizioni da accapponare la pelle…”
L’amore infinito
per Panagulis
C’era la guerra, Mussolini, la povertà. Il padre era uno dei capi del movimento clandestino di Firenze. Fu anche intercettato, arrestato, torturato e rischiò la fucilazione. Una volta, l’Oriana era appena una ragazzina, per sfuggire alle bombe corsero a rifugiarsi in una chiesa. Lei prese a singhiozzare e il padre la schiaffeggiò. “Una ragazzina non piange!”, le ingiunse incendiandola con gli occhi. Da quel momento Oriana imparò a non piangere. Non lo fece nemmeno quando morì l’eroe della resistenza greca Alekos Panagulis, suo grande amore. Infatti ai suoi funerali, ad Atene, cui assisterono quattro milioni e mezzo di persone, la additavano: ”Guardatela, non piange!” Dunque da quella volta non pianse mai più. Ma in un suo scritto afferma: “Però dentro piango più di chi piange con le lacrime.”
E dice anche che dei bombardamenti su Firenze, lei non se ne perse nemmeno uno. Stranamente, si trovava sempre lì, ma per una sfacciata fortuna non fu mai colpita, e sì che per la città girava parecchio, portando ai partigiani le bombe a mano nascoste in una cesta dell’insalata. Non fu mai colpita ma imparò lo stesso ad odiare la guerra, e quest’odio se lo portò dentro per tutta la vita. “Io non ho mai conosciuto la democrazia. Sono nata quando Mussolini era già al potere da tempo, e sotto la sua dittatura sono cresciuta”.
La sua maturità al liceo classico fu brillante. Era una persona avida di conoscenza e formazione politica. “Partecipavo come un chicco d’uva nel tino di idee ed ideologie che fermentavano il dopoguerra”. Ma dopo il liceo, per le deboli condizioni economiche della famiglia (il padre era un semplice muratore), all’Oriana fu presto chiaro che avrebbe dovuto cercare lavoro e rinunciare all’università. Si era iscritta a Medicina, ritenendo che nessun’altra facoltà avesse più alto valore umanistico, interessandosi alla conoscenza dell’Uomo non solo dal punto di vista del corpo, ma anche della mente. Dunque a sedici anni (aveva saltato due anni di liceo) si mise a lavorare, e per questo non prese mai nessuna laurea, se non quelle conferitele ad honorem. Era sempre stata un tipo pratico. Da adolescente si faceva le scarpe con le suole di gomma, usando i copertoni delle automobili.
Gli esordi
giornalistici
A 16 anni e mezzo, senza nessuna raccomandazione, si presentò al capocronista del ‘Mattino dell’Italia centrale’ a Firenze. Era molto esile, praticamente uno scricciolo. Portava le scarpe basse e i calzini. Il capocronista la guardò divertito, poi le chiese di ‘tentare’ un capocronaca. Lei lo scrisse a mano e glielo portò. Lui si infuriò. Non sapeva nemmeno che quel lavoro si fa scrivendo a macchina? Così la mise alla macchina da scrivere e lei stette tutto il pomeriggio a picchiare con un solo dito sulla tastiera. Infine glielo portò e fu pubblicato.
All’età di 20 anni cominciò a collaborare con l’Europeo, e successivamente con Epoca, di cui lo zio Bruno Fallaci, in famiglia detto Settecervelli, era editore. Lui temeva di essere accusato di favoritismi, e non le diede mai incarichi importanti, ma lei col tempo se li conquistò da sola, grazie alla sua bravura. Dal Mattino dell’Italia centrale venne poi licenziata, perché si era rifiutata di scrivere su un politico un articolo compiacente. Le fu detto che è normale per un giornalista essere pennivendolo, ché non si sputa nel piatto in cui si mangia. Lei ribadì: “Non scrivo per soldi, non ho mai scritto per soldi, mai!”.
A 25 anni, stufa di Firenze, se ne andò a vivere a Roma. Dopo appena un anno fu chiamata dalla redazione milanese dell’Europeo, e si trasferì a Milano, ma viaggiava molto, anche perché avendo sin da piccola una buona conoscenza dell’inglese, le commissionavano molti reportage all’estero. Da un giro del mondo durato 30 giorni nacque Viaggio intorno alla donna.
“Io, un tarlo
nella storia”
“È grazie all’Europeo che ho potuto vivere come un tarlo dentro la Storia. Vivere la storia nell’attimo stesso in cui essa si svolge. Testimoniare le nefandezze della guerra e le porcherie della pace. Conoscere e raccontare chi sono i personaggi o non-personaggi che avendo vinto la lotteria del potere decidono il loro destino.” E così è stata, oltre che la prima corrispondente di guerra donna, forse la giornalista che ha testimoniato il maggior numero di conflitti, a partire da quello del Vietnam, dove fu ben 12 volte in sette anni. Visse anche molti anni a New York. Aveva lì una casa da cui andava e tornava. Le interessava scrutare le trasformazioni della società americana, la controcultura del cambiamento.
Ma a un certo punto della sua vita le apparve chiaro che il giornalismo l’aveva rubata all’Oriana scrittrice. Allora si dedicò sempre più a scrivere romanzi, anche se per farlo ci metteva una tale concentrazione e dedizione che la vista le si andava sempre di più consumando. La sua frequentazione dell’America le era già valsa a scrivere il suo primo romanzo, I sette peccati capitali di Hollywood, con prefazione di Orson Welles, dove rivelò cosa accadeva dietro le quinte ai potenti del cinema.
Scrittrice al top
i suoi libri a ruba
Ma fu il suo Lettera a un bambino mai nato, uscito nel 1975, a vendere in tutto il mondo 4 milioni e mezzo di copie. Invece il suo libro più famoso, best seller mondiale, è Un uomo, scritto nei tre anni dopo la morte ad Atene, in un incidente automobilistico di causa incerta, di Alexandros Panagagulis, suo compagno. Con lui visse dal 23 agosto 1973, giorno in cui lei andò in Grecia ad intervistarlo (lui era appena stato scarcerato grazie a un’amnistia, dopo anni di reclusione e torture, perché aveva tentato di uccidere il tiranno Papadopoulos), al giorno della sua morte avvenuta il 1° maggio 1976.
Il giorno dell’intervista, tra loro scoppiò come una bomba (parole sue) l’ amore. Simili in tante cose, soprattutto la passione per la libertà e il coraggio, l’insofferenza per le ingiustizie, vissero un rapporto esclusivo, dentro “una selva di tenerezze”.
Nei tre anni dopo la sua morte, l’Oriana si staccò dal mondo e isolò nella sua casa a Casole, località Greve in Chianti. Voleva assolutamente testimoniare a chi non lo conosceva, chi era stato Alexandros Panagulis. Viveva completamente immersa nella scrittura. Scriveva anche 18 ore al giorno. Ma a distanza di appena otto mesi dall’altra, ancora una morte era in agguato, quella che le avrebbe portato via la seconda persona da lei più amata: sua madre. La vide spegnersi goccia a goccia, ed ebbe con lei uno scambio fittissimo di confidenze e sussurri d’amore. Dopo l’estrema unzione, che la assolse da peccati secondo l’Oriana mai commessi, la madre le indicò la poltrona. L’Oriana vi sedette e per sei giorni e sei notti non si mosse da lì, a tenersi sveglia per rinviare quell’anticipo di morte che in un figlio è dato dalla morte della propria madre.
“Per tenermi sveglia la tenevo sveglia e parlavo, parlavo. Le raccontavo quello che non le avevo mai raccontato: le mie ferite, i miei fardelli, i miei dubbi. Le dicevo che malgrado quelle ferite e quei rimpianti e quei dubbi, mi piaceva tanto la vita, ero così contenta di essere nata, e la ringraziavo in ginocchio di avermi partorito… Se ne andò tra le mie braccia, come un uccellino intirizzito dal freddo, e per condurla al cimitero uscii finalmente di casa, notando che le strade erano ancora strade, che la gente era ancora la gente. “
Il desiderio
della maternità
E infine… l’Oriana restò sola, perché fu suo destino non avere figli. Aveva tanto desiderato un bambino, ma non vennero, forse perché ad averli pensò troppo tardi. Forse perché tutte quelle fatiche dei viaggi non propiziavano una gravidanza. L’Oriana dice che quando si desidera inutilmente un bimbo, la donna vede tutto in chiave di maternità. Così fu per lei.
“È sempre stato un grande dolore per me perdere i miei figli non nati. Perché uno muore due volte quando muore senza lasciare figli. Io quando scrivo un libro, lo fo sempre nella speranza di lasciare un figlio quando morrò. Quando scrivo un libro, dico: Sono incinta di un libro. Quando lo pubblico, dico: Ho partorito un libro. E i miei libri li ho sempre chiamati i miei bambini.”.
Poi venne il tempo di staccarsi dall’Europeo e scegliere il Corriere della sera.
Di dedicarsi a un libro avuto in mente per anni, che è Un cappello pieno di ciliegie, pubblicato postumo.
Infine a portar via tutto, tutte le speranze, ci pensò la morte.
“L’Alieno è tornato nel peggiore dei modi. Sto morendo. Giorno per giorno, minuto per minuto. Ho un cancro ai polmoni, uno all’arteria polmonare, uno alla trachea, uno all’esofago, uno anzi due al fegato, uno all’ipofisi, uno all’occhio destro che è completamente spento, uno all’occhio sinistro la cui visibilità è ridotta a un terzo composto appunto di nebbia, e forse uno al colon. Il professor Fahey è venuto a informarmi sul risultato delle risonanze magnetiche. Tutto triste ha sventolato i suoi fogli e lasciandomi impietrita ha detto: “Succede più alla svelta di quanto credessimo. E non sappiamo più che fare. Siamo con le spalle al muro. Siamo giunti alla fine della strada. We have reached the end of the road.”
“Ho sempre avuto l’ossessione della dignità e pensato che la cosa più importante fosse vivere con dignità. Ora so che c’è una cosa ancora più difficile, ancora più importante: è morire con dignità. E questa è, questa sarà, la vera prova del fuoco.”
Sulla sua lapide nel cimitero degli Allori a Firenze, accanto a un cippo commemorativo dedicato ad Alekos, è scritto: Oriana Fallaci. Scrittore.
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Edoardo Perazzi ha donato alla regione Toscana numerosi materiali librari ed archivistici, oltre ad oggetti e foto appartenuti alla scrittrice. Essi hanno costituito un Fondo Documentale attualmente visitabile a Firenze. Tutti i volumi sono disponibili a scaffale aperto e possono essere consultabili ed anche presi in prestito, tranne le prime edizioni, le edizioni in altre lingue e quelle che presentano dediche. La parte archivistica del fondo si trova presso l’Archivio storico del Consiglio regionale della Toscana, a Firenze in Via Cavour. Mentre nella sala della biblioteca della Toscana ‘Pietro Leopoldo’, sono esposti i suoi oggetti personali, compresa la macchina da scrivere, la sua famosa Olivetti Lettera 32.