“Ogni voce è persa e dagli occhi non arriva/ grazia. Inospitale, il gelo ci fa dormire ottunde/ la profezia del verde. Tutto cade dall’alto/ la pioggia lava, poi la neve imbianca/ e fa di noi soldati che obbediscono contro cuore/ alla trincea e già raccontare non sanno/ la propria memoria”. È l’alveare – ricorrente metafora letteraria, in ‘scala’ ridotta, del mondo – che Elisa Ruotolo sceglie come titolo e scenario della sua rappresentazione poetica. Sull’immaginario palcoscenico montato nella casa delle api recitano i personaggi-voci narranti: piccoli insetti che abitano e operano nel microcosmo diviso per celle, per compiti, per ranghi. Racconto polifonico in versi, l’Alveare è la seconda raccolta di componimenti lirici di Ruotolo, dopo “Corpo di pane” (Nottetempo, 2019) e – sempre in materia di versi – la curatela del volume Mia vita cara. Cento poesie d’amore e silenzio di Antonia Pozzi (Interno Poesia, 2019). Ricordando, inoltre, che Ruotolo è anche autrice di due romanzi (Ovunque, proteggici e Quel luogo a me proibito, entrambi in catalogo Feltrinelli) e di una biografia illustrata dedicata ad Antonia Pozzi (Una grazia di cui disfarsi).
Sulla bandella della quarta di copertina di Alverare – nella sobria ed elegante veste editoriale che rende subito riconoscibili i volumetti di poesia Crocetti – è la poetessa ad introdurre la sua opera: “Il mondo non è che questo: un’enorme Alveare (scritto in rosso e con maiuscola, come rimando al libro alla metafora che traduce) in cui ciascuna vita ha un suo ruolo e un destino ingiustificabile. Visti dall’alto siamo come api: febbrili, follemente laboriosi, spesso crudeli e sottomessi a irragionevoli geometrie. Mansueti, ma anche capaci di fissare il buio con disobbedienza, siamo un brulicare di vite mosse da un’idea che ci impegna a edificare ciò che domani sarà disperso in questa tragedia greca ripetuta all’infinito. A ciascuno è data alla sua goccia di veleno”.
E, proprio come i figuranti nel un coro di una tragedia antica, le narrazioni delle api narrano le scene – gli interni, i mestieri, le scansioni del tempo nel ciclico ritorno di nascita, trasformazione e morte – costruendo, per versi, la geografia e il tempo della “città del miele”: “Prima della Città vi è il nulla, che ricomincia/ – uguale e monotono, dopo di lei./ Il nulla è il Caos, un fuori senza mondo,/ solo rumore, mura crettate, olezzo di scorie/ e la continua falce del pericolo./ Là dentro la Città vive una strana notte/ dove il riposo è bandito dalle opere/ e il chiasso accompagna le ore/ che sbattono/ nella ruota del dovere”. All’unisono, le tante voci “spezzate” – l’apicoltore e le api operarie, la pupa, la regina e il fuco – completano il lavoro di descrizione verbo-visiva, diventando esse stesse ideale rappresentazione della “Città nuova”: “Non terrestre, né celeste/ esisto nel pulviscolo eccitato dalla luce/ ho poche abitudini – nessuna innocente/ da quando conosco la piaga dell’azzurro/ l’inferno delle opere/ le intenzioni del guardiano che serra gli usci/ contando le ore”.