Non ho bisogno di ringraziamenti. Non temo né la prigione né la forca. È meglio morire appesi a una corda che di malattia. Il mondo non va in una direzione precisa. I marxisti parlano della storia come di una cometa che segue una traiettoria prestabilita. Sciocchezze. È il popolo che fa la storia. La storia è come un cavallo, chi lo cavalca lo fa andare dove vuole. Isaac Bashevis Singer, Max e Flora, Adelphi, pagg. 226. Pubblicato a puntate sul “Forverts”, il quotidiano yiddish di New York, tra aprile e agosto del 1972, Max e Flora non è mai apparso in volume.
Ambientato a Varsavia negli anni dieci del secolo scorso, il romanzo, il secondo di una trilogia che l’autore ha dedicato al mondo della malavita ebraica in Polonia e in Argentina prima della grande guerra, è una vera e propria narrazione colorita, tragica, azzardata, apparentemente illogica o ponderata ma mai idealizzata di tutti quegli effetti e affetti del mondo ebraico dell’Europa Orientale. Un vero e proprio genere, ci informa la curatrice e traduttrice Elisabetta Zevi, quello della gangster novel, a cui si erano dedicati altri grandi scrittori, che scopro con interesse, quali Mendel Moicher Sforim, Sholem Aleichem, Oyzer Varshavski e Sholem Asch. Si raccontano l’estrema povertà, la criminalità, la violenza, la prostituzione, dall’altro il lavoro onesto, lo studio, la preghiera, la bontà che sfiora la santità.
Nel caso di Singer, tutto ciò è aumentato da intermezzi riflessivi che fanno dei suoi personaggi, angustiati da necessità, lotte per la sopravvivenza, elevazione sociale, processi identitari indifferibili, inspiegabili, perniciosi, dei simpatici delinquenti sempre alle prese con Dio, – Il cielo sorveglia tutto e tutti, da un bisonte a un pidocchio – con le Sacre Scritture, con la Torah, con i Giorni del Giudizio, con i Comandamenti, con il pentimento, con i tormenti dell’inferno o del mondo dopo la morte; ma soprattutto questi personaggi hanno a che fare con la Storia. Sono, alla maniera di Pirandello, autori in affanno in cerca sì di loro stessi, ma soprattutto di una storia che non li sovrasti, che non li schiacci. Il che fa emergere uno scetticismo dirompente, filosofico, ambiguo e di un’intensità tale da dare alla letteratura quel brivido che le necessita. Ovvero quella sapienza che le permette di fare i conti con il male, con i paradossi, con le armature ambigue della vita.
“Dopo duemila anni di esilio, di leggi crudeli, espulsioni, inquisizioni e massacri, gli ebrei continuavano ancora a supplicare Dio di accordare loro una lunga vita, soddisfazioni dai figli, la venuta del Messia”.
Max e Flora rappresentano, allora, quella schiera di strambe figure inconcludenti e semplicemente ricercate e stranianti (si legga Il mago di Lublino, Il Ciarlatano, Keyla la Rossa, Ombre sullo Hudson, tutte opere pubblicate da Adelphi) che danno alla letteratura di Singer quell’aroma di messinscena, di vivacità, di perspicacia, così importante per la descrizione di un mondo che appare sì allucinato, incoerente, folle ma che è più vero della verità. Di una verità che non è commedia umana ma esistenza, volontà di resistere alle assurdità della Storia. “Il mondo potrebbe essere un tale paradiso. Allora perché non è così? Sopra i tetti volava uno stormo di uccelli. Sono più felici di noi? O anche a loro manca qualcosa?”
E veniamo alla trama. Max e Flora sono tornati a Varsavia per procurarsi manodopera per la loro fabbrica di borsette. – In realtà cercano carne fresca per il loro florido bordello che gestiscono a Buenos Aires – Appena arrivati, si sono immersi, come un tempo, nel mondo di via Krochmalna, cuore pulsante del ghetto di Varsavia, sorta di corte dei miracoli, dove, all’inizio del Novecento, aleggiano ancora un buon odore di birra, mostarda, bagel caldi, e pretzel e trafficano i loro vecchi amici, gente come Meir Panna Acida, Leah Lingualunga, Itche il Guercio e Srulke il Tonto. Max è la figura cardine del romanzo. Sembra cinico e donnaiolo, ma in realtà è pieno di dubbi. È un eterno bambino, ciò che tutti sanno tranne lui. In pratica, quanto basta per essere una personalità dove far girare tutti gli eventi che concorrono a un romanzo che si legge con avidità e leggerezza ma che, tuttavia, è capace d’interrogativi lancinanti come pure parole di pietà, di benevolenza, di comprensione. Max s’innamora a prima vista di Rashka una quindicenne che gli è presentata da Meir, suo amico fraterno, per essere circuita e reclutata come prostituta. “Il collo era lungo e bianco. Quella vista gli tolse il respiro e a mezza voce mormorò: Meir, Dio ti benedica”. Da quel momento in poi la vita di Max e conseguentemente quella di Flora e di tutta la comunità del ghetto cambiano, e le situazioni si susseguono a un ritmo vertiginoso tra rapidi colpi di scena e ripensamenti che mantengono il lettore in una tensione incessante: Rashka è minorenne e Max rischia di essere arrestato perché è in fuga con Rashka. Ancora, Max sa che potrebbe essere ammazzato dal padre della ragazza che deve vendicare l’oltraggio subito. C’è poi Ida, un’anarchica, e in mezzo un progetto di una rapina di cui Max è in parte finanziatore. Un mondo quindi di figure precise e di dubbi che Singer sa disegnare con una maestria insuperabile. Una mano, quella di Singer, eccelsa. E ciò non è altro che l’arte del narrare, questo perfido sguardo sulle intramature della vita e dei suoi intricati paesaggi dell’animo. Un fardello, comunque. Un Dio che colpisce in eterno e non parla mai.
[Isaac Bashevis Singer, Max e Flora, Adelphi, pagg. 226]