Michele Masneri, Paradiso, Adelphi, Pag. 187
La vedo giù di corda, sa? Io li conosco bene questi stati d’animo. Si figuri che nei momenti più bui, quando ero pronto a un insano gesto, ho sempre pensato a cosa avrebbero trovato a casa mia: tutti quei jockstrap, i dildo, i frustini; così ogni volta che volevo suicidarmi mettevi tutto in un borsone e lo buttavo nel cassonetto di sotto. Anche cose molto costose, dei Lederhosen di pelle da duemila marchi fatti su misura a Berlino. Poi il giorno dopo ripassavo dal cassonetto e non c’era più niente. Saranno stati sicuramente gli zingari, e adesso ci saranno campi nomadi riforniti a tutto punto, a Roma. (Michele Masneri, Paradiso, Adelphi, Pag. 187).
Si leggono cose così in questo romanzo dalle evoluzioni bizzarre, strambe, originali? Le prime pagine, ma anche quelle subito successive si leggono con un certo fastidio. Stizzisce un lessico “comunitario, collegiale, universale”: longform, tableware, layer, mainstream, obituaries, finger food… e così via. Irrita l’habitat giornalistico, e subito si pensa all’ennesimo autore che viene dalla carta stampata. – Masneri scrive per il “Foglio”. – Scrittore è diventato, ormai, sinonimo di giornalista. Non c’è narratore che non viene dalla carta stampata. Quasi un sodalizio. Una connivenza. Un tirarsi, un trascinarsi, un acchiapparsi per i capelli prima che tutto affondi: letteratura, carta stampata, riviste, diari digitali, o tutto ciò che rassomiglia a un probabile racconto, a una fatale resa agli abissi del libro. Ossia il Libro. La necessità del libro. Poi, e la cosa mi ha fatto tremare, ho pensato: ma è un Adelphi! Possibile? La percezione che tutto poteva crollare in un istante, o era già sprofondato e non me ne ero per niente accorto, mi ha attraversato per buona parte della lettura. Perché? È un libro che m’incuriosiva già prima che mi fosse disponibile. A parte il titolo che sembrava tanto palesamene opporsi all’Inferno di Manganelli, ma ne leggevo (anche ascoltavo) cose qua e là che non riuscivo a capire. Fatto sta, che avevo ricevuto una traccia confusa, equivocata. Nel senso che non capivo di cosa trattasse fondamentalmente il libro. Ovviamente, ciò per un mio limite. O anche pregiudizio, perché no? Intanto, come i personaggi del libro, ognuno ha il suo modo di affrontare il dolore. Anche la letteratura ha il suo modo. O i suoi modi. Ciò non significa che la letteratura è un modo della sostanza. Tuttavia, ne ha sempre l’occasione. E quando ci riesce, come nel caso di questo libro di Masneri, lo fa nella maniera inaspettata e originale di come quando si riceve una ferita esiziale. Un incidente. Qualcosa d’inaspettato e folgorante. La ferita mortale sul cranio di Barry. Personaggio nodale del libro. E doppio di un mondo che non si sa che cosa sia e che cosa debba diventare. Un incantamento? L’invenzione fantastica? Il cinema? La letteratura? La vita stramba a difendere un luogo per quanto improponibile, insignificante o irrilevante che sia. Che sia questo il Paradiso? Lo scopriamo man mano leggendo il libro. Un viaggio dove riecheggia, o si specchia l’angoscia di una contemporaneità fittizia, irreale, ingannevole, e sempre per il suo modo di essere illuminata, ragionevole, esatta. “Sulla terrazza c’è un albero di Natale enorme e sempre illuminato, si vede tutta Roma”: una visione ecumenica nel grande cerimoniere di una mondanità sadica e spietata alle prese con la nefandezza e la meschinità. Tuttavia non sono i personaggi del libro a essere tali come di primo acchito potrebbe apparire, ma il loro rifrangere quel mondo che li ha esclusi dal proprio sogno. Come il protagonista del libro, un certo Federico Desideri, finiamo anche noi per amarle queste figure caricaturali. E non vorremmo più lasciarle. La bravura di Masneri è di regalarci uno spiazzamento che ci coinvolge lentamente. Cosicché queste figure di “falliti” ci diventano simpatiche e finiamo per amarle. Alla fine del libro, esse sono per noi qualcosa di commovente e straziante. E, allora, troviamo imbarazzante un’uscita del genere per bocca di Martino, compagno di Desideri. “Sono tutti morti, cazzo. L’ex ambasciatore, il finto medico e la principessa depressa, nel castello diroccato, e la figlia zoccola… Sembra di essere in un parco a tema sul disagio. Lo so che a te fa schifo andare a Stromboli e fare delle cose normali. Scusaci se non siamo all’altezza degli aristocratici romani, o di un vecchio fallito con la Rolls verso il quale hai sviluppato un nobile sentimento di amicizia. Scusa davvero se siamo dei poveri deficienti che hanno lavorato tutto l’anno e ora hanno voglia di divertirsi un po’”. Però conosciamoli meglio questi notabili e pregevoli personaggi di un provocatorio ed evocativo Paradiso che non è altro che un immenso agglomerato di ville e bungalow sgarrupati sul litorale laziale, dove vive, appunto, quest’amabile compagnia di vecchi freak e tipi strampalati in una sorta di comune che gira attorno a Barry Volpicelli psicopompo e figura tra le più scombinate, tolleranti e simpatiche che si potessero inventare. In ordine sparso, allora, c’è un ambasciatore fuori di sé che non distingue più Mosca da San Pietroburgo. Un ginecologo a riposo che alleva galline ornamentali e vede faine dappertutto. Il principe Gelasio Aldobrandi che – in preda a una perenne crisi mistico-araldica persegue il sogno irrealizzabile di un erede. Una coppia di lesbiche che rimpiangono i giorni fasti in cui venivano invitate in Vaticano da Ratzinger. Una produttrice che dà a Desideri l’incarico di scrivere la sua autobiografia. Un’ex bellona che accusa l’intero cinema italiano di averle rubato le migliori idee. Infine, la prima e la seconda signora Volpicelli. Non c’è nessuna differenza di maniera tra questi eroi. Tutti accomunati dalla stessa inconcludenza. O conclusione. I dialoghi sono interminabili quanto deliranti e futili. Anche esilaranti. Cinici, a volte. O addirittura disorientanti. Non assurdi, ma come se tutto si livellasse in piattezza. Come se niente avesse una priorità. Come se tutto fosse un’incredibile costruzione su di una fotografia che si fa a se stessi. Finazzer, l’influencer di passaggio con il suo yacht sulla spiaggia del Paradiso si mette in posa con aria sedotta con le galline Sebright, Wyandotte, Appenzeller Barbuta. Federico Desideri, trentenne giornalista di belle speranze ma di scarse soddisfazioni è alla fine della sua avventura, quando da Milano era arrivato a Roma per ordine di Salvatore, direttore di una rivista patinata, ma anche altra figura caricaturale, con il compito di intervistare il regista Maresca vincitore nientemeno che di un Oscar. Un’operazione difficile ma che per una serie di fortuite o caparbie vicissitudini sembra potersi realizzare proprio grazie alla conoscenza impensabile con Barry Volpicelli. Ecco, ne viene fuori, un libro inatteso. Un libro che si fa via via emozionale, apprensivo e sentimentale, e senza essere mai noioso. Anzi, un libro amaro e inattuale nei suoi retroscena sensibili e amicali. Uno spaccato di un’umanità difforme e coesa. Organica. Ciclica. Resistente. Paradiso finisce così per essere piuttosto che un luogo, un legame. O qualcosa che non si sa che cosa sia né che cosa mai potrà essere. Un libro, certamente, per quegli abitatori di spazi conclusi e sconnessi. La letteratura, forse, non somiglia a questi posti? E Paradiso non è forse quest’ambiguità visionaria di essere benedizione e condanna? Chi non ha mai sognato di guidare una Rolls e abitare in Paradiso?
Michele Masneri è nato a Brescia e vive tra Roma e Milano. È giornalista, ora al Foglio. Per Adelphi ha pubblicato il reportage narrativo Steve Jobs non abita più qui (2020). Paradiso è il suo secondo romanzo.