Un incontro prezioso, raro, quello tenutosi al Teatro Nuovo di Salerno lo scorso 8 marzo. “Lo specchio del poeta“, evento della rassegna “Marzo CorpoNovecento” diretta dal regista Pasquale De Cristofaro, ha concesso al pubblico la possibilità di ascoltare in diretta la testimonianza attuale e viva dei poeti Mario Fresa, Anna Marchitelli, Enzo Ragone, Eleonora Rimolo e – in collegamento da Milano – Franco Buffoni, coordinati da Andrea Manzi e Vincenzo Salerno. Cinque poeti di generazioni diverse, accomunati dall’essere testimoni di una forma estetica percepita come voce flebile nel rumore assordante della contemporaneità. I loro versi hanno assecondato i desideri di chi, pur da spettatore, è fatalmente portato a sentirsi a propria volta poeta: la fruizione della poesia diventa introiezione e personale rielaborazione, fino al punto di fondere e confondere autori e ascoltatori. Non che la silloge poetica sia incapace di attraversare i contenuti e i temi sociali ed esistenziali che il presente offre, ma i versi restano comunque il terreno prediletto della proiezione dell’Io, dell’intimismo, di tutto ciò che si vuole proteggere dalla prosa quotidiana cui tutti siamo tenuti nel contesto delle relazioni interpersonali.
A ogni incontro tra poeti il pubblico si pone inizialmente come semplice ascoltatore. Poi un flusso di suggestioni e ispirazioni riflesse si appropria degli stati d’animo e induce nei presenti un sentimento melanconico, una commistione tra nostalgia e ricordi che dischiude sensibilità inaspettate, improvvise. La poesia sotto questo aspetto può anche essere pericolosa: dilata il diaframma tra ciò si avverte e ciò che si vive, provoca fratture in sé stessi, è in rapporto inversamente proporzionale con il tempo liquido in cui siamo immersi. Pur vivendo nell’immediatezza dell’attimo – caratteristica che la rende una forma d’arte – difficilmente si pone come sguardo sul futuro, perché il lirismo di cui ognuno di noi è in fondo portatore conduce in un viaggio a ritroso nel proprio vissuto.
Non c’è ricerca della verità nella poesia, non c’è scopo, piuttosto il sentimento dominante è la nostalgia; sono il rimpianto e il ricordo a prevalere, quando i versi assorbono la nostra attenzione. Il legame tra poesia e nostalgia è qualcosa d’indecifrabile e indissolubile, un nodo che ha in sé il dono o il rischio – a seconda di come lo si voglia interpretare – di destare stati d’animo profondamente scissi dalla vita quotidiana. La poesia si nutre di nostalgia e celebra l’assenza di tutto ciò che è stato, che è accaduto, che si è provato in un frammento di vita o in tutta la vita trascorsa.
I versi sono così l’antidoto a una perdita, a una sottrazione avvenuta, ancora in corso o in procinto di verificarsi. Poesia, nostalgia, quindi magia: tre massime espressioni dell’astrazione dell’uomo. Tra esse la poesia è l’ancora di recupero del tempo perduto, la via d’uscita di fronte a una realtà deludente, se non scadente. Ascoltare i poeti è quindi un’esigenza irrazionale, un modo per soddisfare un senso di vuoto. L’abbandono melanconico che ne segue lascia il passo a un nuovo sguardo: è proprio questo il momento in cui il fruitore diventa a sua volta poeta, aprendo parentesi destinate a rimanere aperte, affinché possano mischiarsi con la vita quotidiana.
Non è però solo la forma poetica pura ad avere questo privilegio; dalla prosa di Kafka, Buzzati, al cinema di Fellini, il realismo magico è prima di tutto una raffinatissima forma di poesia che riconosce i frammenti di una visione e li rimette insieme come pezzi di vetri, fino a formare … lo specchio del poeta.
Se l’ascolto di una declamazione di versi assottiglia e spalanca le porte della percezione e delle lunghe introflessioni della nostalgia, si deve allora accettare l’eventualità del “sentirsi” poeti, creature fragili e incostanti, con la loro “animula vagula, blandula…”, come si definì Adriano – l’imperatore poeta – in punto di morte.