I fiori sono come le rondini, tornano ogni anno negli stessi luoghi con una regolarità sorprendente e discreta. Hanno un’identità consustanziale allo scopo della loro breve esistenza. Osservandoli, se ne deduce che il télos non è un’invenzione dei filosofi: si presentano a noi, portando a compimento il loro fine (quello di esistere). In esso però è già iscritta la sua antitesi, cioè la fine. Una coincidenza tipica dell’eterno ritorno dell’uguale: gli elementi periscono ma poi rivivono nel flusso del loro imperscrutabile destino. C’è nella vita dei fiori una regolarità che evoca brandelli dell’antica cosmologia e così, nel loro universo variopinto e odoroso, accade tutto ciò che è già avvenuto. Non c’è ombra rassicurante in questo tempo ciclico, ma il passato riappare e il presente lo invera con inesorabile puntualità. Dentro questi ritmi cadenzati di policrome vite brevi, sempre assetate di luce, c’è il mistero dell’esistenza del mondo, una temporalità perfettamente compiuta nell’unico codice percepibile, quello della bellezza, approdo di silenzi e stupori, fragranze e colori ostinatamente carichi di vita. È il tempo della natura, è la riproduzione della specie che non conosce condizioni e luoghi deputati: i fiori nascono ovunque, tra le pietre, nelle crepe dell’asfalto, dentro rovi tenaci, negli ispidi insediamenti di erbacce urticanti. Basta che compaiano pochi grammi di tenera terra e la vita spunta prodigiosamente perfetta, secondo i protocolli insondabili di una necessità salvifica e infallibile. «Quando si fa sera – annotava Kahil Gibran – il fiore chiude i petali e dorme, abbracciando il suo desiderio. Sul far del mattino schiude le labbra per ricevere il bacio del sole. La vita del fiore è desiderio e appagamento. Una lacrima e un sorriso».
Sul terreno della floreale temporalità ci conduce Giuseppe Grattacaso, un poeta tra i più raffinati e profondi del nostro tempo, che diventa per noi osservatore di una intelligenza antica (le piante c’erano già prima degli uomini e degli insetti), condensata in forme variopinte. Grattacaso, in questo percorso ha un alleato, Maurice Maeterlinck, scomparso 74 anni fa: drammaturgo, poeta anch’egli, saggista, studioso del mondo vegetale e degli insetti sociali (termiti e formiche) e delle nuove teorie sull’universo. Gli fu assegnato il premio Nobel per la letteratura, fu legato al movimento simbolista, e qui ritorna in particolare come autore de “L’intelligenza dei fiori”, un testo che penetra il principio di necessità con cui la botanica realizza i propri piani, secondo un progetto invisibile che ha l’identica iper-definizione di un protocollo tecnico.
Giuseppe Grattacaso ha il merito di aver rilanciato, per le edizioni Elliot, il puntuale saggio dello scrittore belga e di aver delineato, in una introduzione divenuta parte strutturale dell’opera, le affinità tra le esistenze degli uomini e dei fiori. Singolare è la capacità dei vegetali di progettare la vita, proiettarla nel futuro, conquistare il mondo zolla dietro zolla, giorno dopo giorno, provando – pur nello scomodo ancoraggio alla radice e alla terra – le nostre stesse gioie. Sono particole di felicità che allargano il cuore, interrompendo la corsa a ostacoli che la vita impone a tutti nel campo minato dei dolori e delle angosce. Le piante lottano con coraggio, assaggiano il brivido della verticalità che gli uomini sognano, si congiungono ad altre piante, le stringono in abbracci complici e procreano. Più o meno con l’identico slancio che congiunge un uomo a una donna, slancio che apre orizzonti di desiderio e di piacere e genera altre vite. Esiste una genialità nella vegetazione che ci circonda. Maeterlinck la scorge già nei sistemi di disseminazione, frutto di una intelligenza finissima, sagace: dalle molle deflagranti dell’Euforbia alla macchina per planare del Cardo e del Tarassaco. Sono meccanismi «inaspettati e stupefacenti, perché non esiste, per così dire, alcun seme che non abbia inventato di sana pianta un qualche procedimento tutto suo per evadere dall’ombra materna». È la manifestazione di un intelletto primitivo, condizione biologica dell’esistenza, che spesso chiede aiuto anche agli uccelli, attirandoli e coinvolgendoli nell’opera di promozione della vita con lusinghe, adescamenti e moine. Vischio, Ginepro e Sorbo si rannicchiano dentro un involucro dolciastro. Il volatile mangia il frutto e ingoia anche il seme che non digerisce, poi s’invola e restituisce ciò che ha ricevuto e, libero dalla guaina, il seme germoglierà in un altrove di vita. Esiste una pulsione vitale che Maeterlinck, come evidenzia Grattacaso, coglie nel “dialogo” tra i mondi vegetale e animale, una progettazione che si manifesta nella gestione di stimoli, regolata dalla medesima intelligenza invisibile e concreta, originaria e naturale che sembra smentire il coevo assioma di Arnold Gehlen per il quale «la cultura fa parte delle condizioni fisiche dell’esistenza». Sono prestazioni istintuali di soccorso e di cooperazione, cariche motorie ed espressive, manifestazioni di una originaria solidarietà tra universi solo apparentemente disconnessi. Il disegno, «avveduto e vivace», non investe soltanto il seme e il fiore, ma l’intero corpo della pianta, le radici, i gambi, le foglie. E così – racconta Maeterlinck – in Provenza il tronco di un albero inclinato sull’abisso trova la soluzione di ancorarsi a una parete di granito, con una prodigiosa presa delle radici, riemerse proprio per soccorrere la pianta. Sono tecniche selettive che scelgono gli stimoli utili alla vita, una sorta di attivazione di principi scritti chissà dove per tutelare le virtù di un’imperscrutabile anima mundi. E che dire delle “cerimonie nuziali”, che variano da fiore a fiore, con gli enormi sforzi di stami e pistilli che riescono a unirsi anche quando sono lontani e della stessa dimensione? L’Ortica ha gli stami «accovacciati sullo stelo» che, al momento della fecondazione, osserva Maeterlinck, «si distendono allo stesso modo di una molla, e l’antera o sacca pollinea che la sormonta lancia una nuvola di polvere sullo stigma». Giglio, Tulipano e Crespino attivano altre procedure generative, talvolta utilizzando i caldi raggi del sole, che fa evaporare il liquido di ghiandole umide, consentendo agli stami di adagiarsi asciutti sullo stigma. L’Orchidea chiede aiuto agli insetti, ma lo fa solo quando è certa che sia arrivato il momento giusto: solo allora offre ai suoi indispensabili ospiti una goccia di nettare. Ciascuna specie di Orchidea adotta tecniche generative diverse, ogni famiglia ha esperienze e psicologie proprie. L’Orchis, che è la più intelligente, ad esempio, «ha aggiunto al labbro inferiore o labello due piccole creste che guidano la tromba dell’insetto verso il nettario (…) Darwin paragona molto appropriatamente questo ingegnoso accessorio allo strumento che a volte usiamo per guidare un filo nella cruna di un ago (…)».
Se si entra in questo mondo, ri-creato per i lettori da Maeterlinck, la tentazione è di non uscirne più. La densità del profumo e l’intensità delle visioni sono tali che il ritorno al quotidiano di un mondo sovrabbondante e retorico è come l’ingresso nel buio di una caverna, edificata sui pilastri dell’eccedenza senza ideali e senza desideri. Un fascio di luce può però arrivare da un’opera come L’intelligenza dei fiori, che non è (soltanto) un trattato di botanica, ma il poema di una natura in estensione, che entra dentro di noi modellando la terracotta dei nostri sogni. Una luce scorta anche da Camillo Sbarbaro, voce superba della nostra poesia, che studiò il Lichene («… prospera dalla regione delle nubi agli spruzzi del mare…»), con i suoi prodigi fenomenologici e ne rimase folgorato. La poesia dice e traduce in immagini questi prodigiosi eventi, che Giuseppe Grattacaso ha riproposto e riletto per noi, facendoci scorgere la presenza/assenza di questo Genio universale che si manifesta attraverso colori e profumi. Ma può la scienza farsi coscienza, come forse si domanda il prefatore-poeta? Maria Zambrano, nei suoi studi sul rapporto poesia-filosofia, arrivò alla conclusione che ogni intuizione filosofica è preceduta da una visione poetica. E i fiori sono visione. Nascono come i bambini e le opere d’arte, senza chiedere di venire al mondo. Nascono per sé stessi, non per la società che, però, se ne appropria. Nascono per l’assoluta necessità di nascere, spinti da una forza, che è un capolavoro di furia vitale. Un giorno Schopenhauer fu sorpreso dall’armonia che scorse in un campo di fiori. A voce alta, il filosofo si chiese del perché di tanta magnificenza gratuita nel mondo. Un fiore gli rispose: «Stolto! Tu credi che io fiorisca per essere visto? Io fiorisco per me e non per gli altri, fiorisco perché questo mi piace: nel fatto che fiorisco e sono consiste appunto la mia gioia e la mia voluttà». E se la gioia e la voluttà esistono, non siamo sotto l’imperio del Nulla.