Nel suo ultimo libro, “L’etica del viandante” (Feltrinelli, 2023), Umberto Galimberti ha illustrato il poderoso percorso della storia del pensiero occidentale, partendo dalle sue matrici, che affondano nella tradizione classica e nel patrimonio della tradizione giudaico-cristiana, per giungere a configurare una vera e propria categoria dell’ethos umano.
Un testo ambizioso che ha il sapore di un “redde rationem” con i principi e i capisaldi che l’etica collettiva e del singolo hanno sviluppato lungo il corso dei secoli.
La fenomenologia del contemporaneo induce a uno spaesamento, la forma dell’agire, indirizzata unicamente al raggiungimento dei fini preposti, mostra tutta la sua inadeguatezza in un contesto dominato dalla tecnica e dalla logica del “funzionamento” asettico di sistemi sociali, politici ed economici.
La tecnica è di per sé un’ideologia, ma priva di anima: nessuno scopo, nessuna ricerca della verità, ma solo una perenne tensione verso l’ottimizzazione degli interessi in gioco. Tutto deve funzionare perché lo scopo stesso è determinato dall’efficienza di regole e azioni.
Galimberti disegna così la parabola di un iter filosofico tracciato a fine Ottocento da Weber, Nietzsche, Freud fino a raggiungere il Novecento e gli studiosi contemporanei, come Emanuele Severino, durante il quale avviene l’ineluttabile, progressivo deteriorarsi dei valori dell’umanesimo, troppo irregolare per esprimersi nel contesto di una contemporaneità che celebra il primato dell’automazione.
Qual è allora la postura esistenziale che consente all’uomo una via d’uscita, uno “stare al mondo” equilibrato e disincantato?
L’autore offre al lettore una nuova prospettiva, defilata, ma non meno presente. L’etica del viandante che Galimberti propone induce alla rappresentazione immaginaria di una torcia che possa aiutare l’uomo ad orientarsi nel labirinto dell’età della tecnica.
Solo uno sguardo transeunte, la consapevolezza del passaggio in un tempo limitato, può consentire all’uomo di adattarsi al panorama del cosmopolitismo; il viandante “abbandona l’etica antropocentrica per un’etica planetaria”, non è più al centro, ma mette al centro un futuro di cui non sarà spettatore. L’attraversamento di un mondo che non può appartenergli può innescare il processo di un nuovo umanesimo. Il viandante è l’uomo senza meta, la sua opera di denuncia delle atroci storture della civiltà è una voce rivolta ai posteri.
Galimberti riprende il concetto di ethos del trascendimento dell’antropologo Ernesto De Martino: nell’uomo non prevale l’istinto, ma la sua evoluzione passa attraverso la capacità di adattarsi a situazioni mutevoli.
Il trascendimento è un punto di vista privilegiato che permette all’individuo di superare gli steccati imposti dai confini culturali, politici, etnici e religiosi. L’etica del viandante è un percorso che mette di fronte all’uomo il proscenio della fraternità, il “topos” ideale per le decisioni che hanno implicazioni etiche. Il senso del viaggio è nel viaggio stesso, così come il suo lascito a chi verrà dopo.
L’unico mondo possibile è quello in cui viviamo e invoca la fine di ogni logica di ossessivo possesso da parte dell’uomo, gli strumenti che la tecnica gli mette a disposizione implicano il rischio della distruzione di qualcosa che non gli appartiene. L’etica del viandante sembra tener conto di quell’eterogenesi dei fini teorizzata da Giambattista Vico; non è tutto a disposizione delle finalità che abbiamo posto a promessa e scopo ultimo delle nostre azioni e degli strumenti della contemporaneità: di lineare, nella storia, non vi è nulla.
Il nomade può insegnarci qualcosa a riguardo.
“..sono un viandante, nient’altro; arrivo nella città immensa senza alcuna risorsa materiale”
Arthur Rimbaud