Le migrazioni non sono un male da fermare. È ora di svoltare

51 mila morti nel Mediterraneo dal 1993 al 2023, a cui aggiungere le sofferenze vissute dalle persone bloccate nelle prigioni e nei centri di detenzione in Libia, Grecia, lungo la cosiddetta balcanica e in Turchia. Il dibattito politico non è riuscito, finora, a tematizzare questo fallimento. Anche l’opposizione parlamentare si è concentrata su costi ed efficacia nel blocco degli arrivi. Al centro, invece, deve essere messo il carattere necropolitico delle politiche migratorie in Europa

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Albania, il gran pasticcio dell'accordo del Governo italiano sui migreanti

Il dibattito sull’apertura degli hotspot in Albania da parte dello Stato italiano si è concentrato sul loro costo e sulla loro efficacia verso il blocco delle emigrazioni delle persone potenzialmente richiedenti asilo. Il dibattito è impostato in un modo che conferma l’idea che le migrazioni senza visto, e quindi composte da persone che potrebbero richiedere protezione internazionale, sono un male da fermare. E, al tempo stesso, conferma che le migrazioni sono un costo e che tale costo va contenuto il più possibile.

Un’enorme quantità di ricerche e studi negli ultimi 30 anni ha chiarito che queste due idee – le migrazioni delle persone richiedenti asilo come un male o un pericolo e le migrazioni come un costo non sostenibile – contribuiscono a costruire politiche che hanno un solo obiettivo: fare di tutto per bloccare questo tipo di migrazioni, considerate dannose per gli Stati di immigrazione. Questo insieme di studi, condotti soprattutto negli ambiti della sociologia, dell’antropologia, della scienza politica e degli studi giuridici e specialmente quelli più recenti, ha evidenziato il nesso stringente che esiste tra le politiche migratorie volte a contrastare le persone potenzialmente richiedenti asilo e condizioni sistemiche di morte e violenza. Si pensi che l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) e l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) hanno contato non meno di 51 mila morti nel mar Mediterraneo dal 1993 al 2023, a cui aggiungere – per restare al solo caso dell’area mediterranea – le persone morte nel deserto in Africa, oltre le e le sofferenze vissute dalle persone bloccate nelle prigioni e nei centri di detenzione in Libia, in Grecia, lungo la cosiddetta balcanica e in Turchia.

Questo calvario di morte, sofferenza e violenza sistemiche si è prodotto mentre l’Unione Europea, e i suoi stati membri, hanno sempre condiviso i medesimi obiettivi politici, volti alla lotta alle immigrazioni irregolari, basata sugli accordi di esternalizzazione delle frontiere, la riduzione delle operazioni di soccorso in mare e i respingimenti, come ancora una volta confermato da un’inchiesta pubblicata l’11 ottobre da Politico, a cui ha partecipato il giornalista Giacomo Zandonini, sintetizzata nel titolo “L’Unione Europea aiuta la Turchia a deportare forzatamente i migranti in Siria e Afghanistan”[1]. L’evidente fallimento delle politiche migratorie dell’Unione Europea – che non hanno fermato né morti né sofferenze – ha trovato una sola risposta nel tempo: approfondire sempre più il ricorso agli accordi di esternalizzazione – compresi quelli con stati guidati da un dittatore come la Turchia[2] o autoritari come la Tunisia[3] e da stati in cui trafficanti e Guardia costiere si sono sovrapposti come in Libia[4] – e organizzare politiche di allontanamento delle persone potenziali richiedenti asilo – fino a giungere agli hotspot (non centri di accoglienza!) in Albania.

Il dibattito politico non è riuscito, finora, a tematizzare questo fallimento. Anche l’opposizione parlamentare si è concentrata su costi ed efficacia nel blocco degli arrivi. Al centro, invece, deve essere messo il carattere necropolitico delle politiche migratorie in Europa, il fatto che esse si basano sulla separazione delle vite che contano da quelle che si possono perdere, abbandonare o ridurre nei loro diritti fondamentali. Al centro va posto, in definitiva, un obiettivo chiaro: dichiarare che gli hotspot in Albania vanno chiusi, così come tutti gli accordi di esternalizzazione delle frontiere, e aprire a una politica migratoria che, fondata sulla concessione dei visti, non condanni più nessuno a viaggi di morte.

[1] https://www.politico.eu/article/the-eu-is-helping-turkey-forcibly-deport-migrants-to-syria-and-afghanistan/

[2] https://www.youtube.com/watch?v=eda4OjKinC8.

[3] https://ristretti.org/la-tunisia-torna-autoritaria-per-costituzione.

[4] https://www.avvenire.it/attualita/pagine/libia-gli-esperti-onu-denunciano-la-collusione-tra-guardia-costiera-e-trafficanti-di-uomini; Libia, dal business del traffico a quello della detenzione. Intervista a Nancy Porsia – DINAMOpress

Gennaro Avallone

Nato nel 1973, è professore di sociologia dell'ambiente e del territorio presso il Dipartimento di studi politici e sociali l'Università degli studi di Salerno. Tra i suoi temi e ambiti di ricerca si segnalano i processi di emigrazione e immigrazione, il razzismo, il lavoro agricolo, l’ecologia politica e la sociologia urbana.

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