L’estro furioso. Domenico Rea da Napoli a Nofi è il titolo di una raccolta dedicata a un autore che del Meridione, di Napoli e delle sue complessità ha avuto tanto da raccontare e poetare. Il libro prende il titolo da l’«Estro furioso», uno dei dodici racconti parte di Gesù, fate luce – il secondo libro di Rea (1921-1994), pubblicato nel 1950 – andando a indagarne l’attualità così come è stata esplorata dagli studiosi che hanno preso parte, in occasione del centenario dalla nascita dell’autore, alle giornate dedicate alla sua figura. La raccolta è a cura di Vincenzo Salerno, professore associato di Letterature comparate, Oriana Bellissimo, dottoranda di ricerca in Studi Letterari, ed Eleonora Rimolo, Assegnista di Ricerca in Letteratura Italiana, tutti membri del Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università degli Studi di Salerno.
Il volume è stato presentato a Oliveto Citra, dove da decenni il Premio Sele d’Oro Mezzogiorno si propone di promuovere quelle idee che offrono nuove prospettive sul Meridionalismo, distaccandosi da narrazioni stereotipate e puntando a valorizzare le potenzialità dei territori del Sud. Un incontro che ha rimarcato il legame tra Rea e il nostro tempo, consentendo di riflettere sui modi in cui si osserva e si racconta la realtà, prendendo consapevolezza delle sue zone d’ombra. È emersa così la capacità di Rea di farsi autore universale, in grado di superare i propri orizzonti senza smettere mai di narrarli, orizzonti tutt’altro che limitati alla città fittizia di Nofi, quel misterioso angolo di Meridione dove scelse di ambientare buona parte della sua prosa e anche della poesia. Non meno importante, la volontà di confrontarsi con altri intellettuali del suo tempo – tra cui Pasolini – l’umanità e la coerenza, e la sensibilità di cogliere nuovi stimoli letterari e di interpretazione critica.
A testimoniare poi l’inquietudine esistenziale dell’autore napoletano, la figlia Lucia Rea, che coopera da tempo con gli studi accademici intorno alla figura dello scrittore e che ha restituito un ritratto della vivacità intellettuale del padre, della sua dedizione al lavoro e alla vita; una dedizione che forse non gli è stata debitamente riconosciuta, in termini di comprensione artistica, anche a causa di alcune scelte politiche. Dopo la morte di Rea, fu il poeta Giovanni Raboni a scriverne così: «Pensando a quanto (e giustamente) ci siamo nel frattempo innamorati delle pagine e dei personaggi di Garçia Marquez o di Onetti, viene da chiedersi come abbiamo fatto a non accorgerci che ce l’avevamo in casa, a Posillipo, il nostro grande latino-americano».
Premio Strega nel 1993 con il romanzo La ninfa plebea, Rea si era affermato sulla scena letteraria già nel 1947 con la raccolta Spaccanapoli, per vivere un periodo di particolare successo negli anni ’50, e attraversando il Novecento con i suoi contributi critici e una fervente attività giornalistica.
L’accoglienza riservata a L’Estro Furioso dal Sele d’Oro del Mezzogiorno, oltre a sancire l’importanza di Rea nella narrazione del Meridione, mette in luce la portata significativa dell’autore per i lettori contemporanei, come non manca di evidenziare, all’interno dell’opera, lo scrittore Alessio Forgione: «E se oggi tutti possono dirsi napoletani, ma proprio tutti, fortunatamente, lo devono a Mimì Rea ed è da lui in poi, ma la sua influenza è tale che rende più precise anche le tonnellate di letteratura a Napoli che l’hanno preceduto, che la napoletanità, ammesso esista, non è altro che un tratto dell’indole, un modo di essere animali e pure umani, un modo di danzare sopra delle rovine, tristi e allegri nello stesso momento».