Nominare qualcosa che sta oltre il proprio raggio di conoscenza materiale o di là del puro sopravvivere è operazione di sapienza. È già un autentico pensiero speculativo, dice Paul Ricoeur, a proposito della nominazione di Dio. All’invenzione di un Dio.
Gli uomini fin dai tempi più remoti hanno avuto la necessità, o meglio l’esigenza, per dirla con molti filosofi, di un pensiero che li oltrepassi. Di un principio creatore, qualsiasi esso sia. Che sia fonte interrogante o consolatoria. Che sia Qualcosa o Qualcuno. O che dia sfregio alla morte o all’insensato, non importa.
L’uomo ha bisogno di una ragione, di una parola. In ogni caso, dice Gabriella Caramore, in questo puro, semplice quanto imprescindibile libro, La parola Dio, Einaudi, pagg. 131, quando entra in gioco la parola “Dio” il pensare dell’uomo, s’innalza sopra il mero dato, sprofonda oltre la crosta rugosa della terra, scruta la profondità dei cieli e le voragini dei cuori umani. Questo pensare merita la nostra attenzione e la nostra gratitudine, perché di esso siamo eredi e perché sempre, ancora, ci guida nella ricerca di ciò che non conosciamo. Anche nell’era della tecnologia spinta oltre l’immaginabile. Anche nell’era in cui si può, forse, fare a meno dell’ipotesi “Dio”.
Il problema si badi non è tanto Dio quanto la parola “Dio”. Una parola abusata, sfibrata, indebolita rivela l’autrice di quella bella trasmissione radiofonica, andata in onda per anni, – dal 1993 al 2018 – che era Uomini e Profeti, ma che tuttavia bisogna interrogare e chissà se non si riesca a trovarne una legatura, ma anche un arabesco, un’essenza, una logica che ci guidi a una maggiore comprensione delle nostre piccole vicende umane e le vorticose e smisurate dimensioni della storia. E di là dalle narrazioni mitologiche o dalle appropriazioni assolutistiche magari si possa scorgere una strada, una luce, una scrittura che non sia dogmatica, ma che sia sapiente, – qui il paragone con la Scrittura biblica è notevole – in altre parole che sia costruzione della memoria, testo frammentato, fluido, scomposto e ricomposto, contraddittorio e a volte incongruo, che chiede di essere infinitamente interpretato. Un’esegesi, quindi, mai compiuta. Lo studio, dice l’autrice, è un atto di libertà.
La parola è un atto di libertà. Dio è parola. Come la parola è Dio. Si può affermare con grazia ciò che può sembrare un assioma ma in realtà è soltanto il potere inesausto della parola, le cui radici profonde non hanno mai smesso di costruire narrazioni, cammini di conoscenza, ma anche aberrazioni, conflitti e lacerazioni. Come se tutta questa pluralità, varietà, complessità fosse tutt’uno nella parola. Fosse tutt’uno in questa misteriosa, prudenziale e garantita sillaba che è Dio. Stirpe. Universo. Scrittura. Settanta sensi più uno. I fatti non ci sono. Ci sono soltanto interpretazioni. Nulla è fermo. Nulla è dato. Noi fluttuiamo in universo mobile. Mobili sono i nostri pensieri. Mobile è il tentativo di capire il mondo. Non dice, forse, Heisenberg che le variabili di un sistema sono troppe perché si possa sperare di conoscerle tutte? Di conseguenza la stessa terra si apre sotto i nostri piedi insicuri, lasciandoci intravedere sotto di noi una caduta nel distacco di tutti i mondi possibili. Essenzialmente fragilità. Come lo è il linguaggio. Come lo è la parola di Dio. O la parola “Dio”.
Queste le parole del fisico Guido Tonelli superbamente citate nel libro: Trovo meraviglioso che le nostre osservazioni possano stabilire una relazione fra la precarietà della condizione umana e quella dell’universo nel suo complesso. Come se la nostra vulnerabilità di esseri umani non fosse che il riflesso, su scala microscopica, di una precarietà cosmica che interessa tutto: persino le gigantesche strutture materiali che ci circondano e che, a prima vista, sembrerebbero immortali. La nostra fragilità diventa così un tratto che abbiamo in comune con le cose: anch’esse, come noi, imperfette e poetiche, concrete e fatte di sogno, dolenti e luminose.
Resta dunque la parola “Dio”, un anacronismo? Affatto, ci dice la Caramore, purché rimanga interrogativo profondo. Esigenza e coraggio. Un sentiero giusto, in breve, verso la comprensione di noi stessi e del mondo. Non necessariamente una sublimazione del sacro, ma l’idea di salvare un bene comune che esse, le narrazioni tutte, sia religiose sia laiche, hanno saputo custodire e trasmettere come memoria di tenerezza e pietà, come capacità di contrastare storture nelle relazioni umane e di creare bellezza. Nessuna istituzione particolare, afferma Michel de Certeau, è nella situazione “sacerdotale” di poter dire a tutti una verità su tutto.
Ritrovare nella parola “Dio”, la forma di un rischio, il dovere di un’intelligenza critica o l’andatura di un viaggio sembra essere l’esortazione di questo libro dai movimenti naturali e inesauribili. Questo libro che esorta a essere comunità non in nome di Dio ma in titolo di un’inaudita e magari stravagante parola che è la sapienza. Questa sì, una parola seviziata e offesa. Un libro, questo di Gabriella Caramore, assolutamente da leggere.