Larghi orizzonti nel nuovo “Calvino” di Silvio Perrella

Un libro a tratti "diagonale" come lo stile dello scrittore studiato e scandagliato, in cui, come ben nota Marco Belpoliti, ad essere protagonista è lo stesso Calvino e la trama è costituita proprio dalla sua vita

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È un libro “itinerante” il nuovo “Calvino” (Laterza) di Silvio Perella. Lo scrittore palermitano, ma napoletano di adozione, non è la prima volta che si misura con l’autore cubano di origini sanremesi di cui è appena trascorso il centenario dalla nascita. Laterza aveva già dato alle stampe il primo “Calvino” nel lontano 1999, un volume in cui lo scrittore e critico letterario, per diversi anni Presidente della Fondazione del Premio “Napoli”, aveva analizzato e ricercato le proprietà e le connotazioni artistiche nel suo contesto storico, culturale e letterario. L’impostazione del nuovo Calvino di Perrella sarebbe ben piaciuta all’autore de Le città invisibili: un libro a tratti “diagonale” come lo stile dello scrittore studiato e scandagliato, in cui, come ben nota Marco Belpoliti, ad essere protagonista è lo stesso Calvino e la trama è la sua vita. Un libro che non è un saggio bensì un romanzo, un racconto intenso di Calvino attraverso i suoi anni, la sua vita densa, labirintica che sembra a tratti vagare in una sorta di “nebbia mistica” tra i suoi testi, i suoi racconti e le sue lettere.
Lo scrittore e critico letterario Silvio Perrella

L’autore insegue ed esplora lo stile di Calvino, un percorso che si sostanzia in una vera “stilizzazione”, una sorta di procedimento che intende semplificare il mondo e non complicarlo. Perrella ricorda che questa della stilizzazione è un canone caro a Stevenson che soleva ritenere che l’arte (in questo caso della scrittura) e la vita sono scisse e non si incontrano. Il romanzo, d’altra parte, è la semplificazione di un aspetto della vita e non la sua trasposizione fedele. Calvino, dunque, stilizzando e caricaturizzando, compie ciò che porterà, su di un piano di complessità semplificata, a una realizzazione ideologicamente carnale dei suoi personaggi e della sua intera opera.

Lo scrittore, per il quale la recente occasione centenaria ha richiamato nuove attenzioni,  adopera simboli  mutanti nel tempo che lo accompagneranno sino all’ultimo Calvino, quello “lontano dalla realtà” come tempo fa erroneamente si scrisse. Il Capitolo sugli “Anni Quaranta” de libro non poteva non soffermarsi sul romanzo d’esordio di Calvino, quel “Sentiero dei Nidi di Ragno” di cui Perrella nota l’agilità della penna, quell’abilità cosiddetta “dello scoiattolo”, un metodo per filtrare e scrutare la bellezza del Mondo. Perrella, discorrendo su questo romanzo, nota principalmente che gli oggetti decritti nel romanzo hanno significati ed usi diversi da quelli correnti: in questo, Calvino usa vere e proprie “connessioni traversali”. Sul piano cerebrale, spiega Perrella, esse sono le stesse cose che, nella dimensione fisica, corrispondono ad attraversare la strada in diagonale. Togliendo agli oggetti il proprio valore d’uso e facendoli incontrare con altri oggetti, creando cioè altre storie e situazioni anomale, lo scrittore crea, dunque, rapporti narrativi, surreali.

Occorreva per Calvino, nota Perrella, essere grati alla generazione precedente per il mezzo del linguaggio pulito ma allo stesso tempo, distaccarsene, come fa ogni nuovo scrittore degno di tale nome ogni volta che traccia una strada. E Calvino, in quegli anni Quaranta che volgono al termine, la strada la sta tracciando. Anni dopo, negli anni Ottanta, Calvino non amerà quel romanzo che gli diede la fama: lo ha raccontato lo stesso Silvio Perrella in occasione di un incontro svoltosi a Salerno qualche giorno fa presso la Libreria Dadart (fondata da Daniela Diodato con la direzione artistica di Daniele Forte e la partecipazione dell’italianista dell’Unisa Vincenzo Salerno e di Alessandra Carloni) evocando un incontro a Palermo con lo scrittore: Perrella racconta che timidamente, si avvicinò al suo modello porgendogli Palomar ed il “Sentiero” per una firma: la firma ben disegnata e tratteggiata che lo scrittore pose sul libro porto dal giovane studioso non fu la stessa che pose sul secondo, relegata ad una firma veloce , quasi un rapido e  abozzato schizzo: quasi che il Calvino di quarant’anni prima non rispecchiasse pienamente il nuovo.

Ricche analisi e riflessioni pervadono i due successivi capitoli degli anni Cinquanta e Sessanta:  il primo decennio citato è stato caratterizzato da una forte presenza di immagini per rispecchiare quel boom economico in cui Calvino esplora tutta la sua letteratura civile e la sua visione politica, che lo porta anche a diverse crisi esistenziali anche politiche (su tutte l’invasione dell’Ungheria del 1957 condannata da moltissimi intellettuali aderenti al Pci); è il decennio della cosiddetta “morte dei padri”, tra tutti Pavese,  il decennio della fortunata ed emblematica “Trilogia dei nostri antenati” in cui nei tre romanzi de “Il visconte dimezzato”, “Il barone rampante” e “Il Cavaliere inesistente” Calvino offre la visione e il giudizio del suo pensiero, visione che sarà essenziale per gli scenari futuri, di labirinti, del rapporto scrittura-scienza e perdita e frammentazione dell’Io, del punto di vista del protagonista e del lettore: in una parola, la perdita dell’armonia con se stesso (Il Visconte), la necessità di sfuggire al conformismo (Il Barone), e all’alienazione (Il Cavaliere).
Tra tutti e tre i romanzi, nota Perrella, il “Barone” è quello, forse, più sentito, una sorta di omaggio ai genitori, alla storia, alle sue letture ed ai suoi studi, al suo prediletto Settecento.
Un paese, l’Italia, “dove si verificano le cause e non gli effetti” racconta Calvino attraverso il conte Cosimo Piovasco di Rondò, protagonista errante di fronda in fronda.
Calvino polemista politico è anche colui che teme di essere considerato anticomunista, “Desideri di libertà e rispetto di regole di convenienza”.
In questo perenne confronto politico, vive lo scambio interessante con Pasolini: un incontro che, nel ventennio successivo, diverrà scontro a tratti aspro sulla società contemporanea ma che, negli Anni Cinquanta, è prodigo di consonanze tra i due scrittori “così lontani, così’ vicini”.
Calvino loderà il “Canzoniere italiano” di Pasolini , volume fondamentale per la salvaguardia della tradizione popolare che lui sente suo per le sue “Fiabe italiane.”
Negli anni Sessanta la perdita di questi valori è ancora più rapida perché è rapido il mutamento della società: la cosiddetta “visione trasversale ed obliqua” si inserisce totalmente nella corporalità dello scrittore (e nei suoi personaggi) che diventano un tutt’uno. Sono gli anni di “Marcovaldo”, gli anni di altri incontri essenziali per Calvino; Perrella ricorda quello con Celati, l’intellettuale anglista che nota come negli anni Sessanta lo scrittore poteva attingere ad una notevole moltitudine di ideologie, da Foucault e l’ideologia a Bachtin e il Carnevale, alle società primitive studiate da Levi Strauss; eè anche il decennio dell’incontro con Queneau.
Interessante è il capitolo riferito agli Anni Settanta, con “Le Città invisibili” (un universo “immagine della mente di Calvino”), libro diventato un riferimento imprescindibile e necessario per qualsiasi critico che voglia discorrere di letteratura postmoderna come nel caso di “Se una notte d’inverno un viaggiatore”; il mondo del rovescio, dello smontare e del rimontare, dell’ “intreccio dei frammenti”. Gli “Ottanta”, invece, sono gli anni della “somma” (che somma in effetti non fu a causa della precoce e prematura scomparsa che stoppò nuovi progetti letterari.
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