‘Il faut cultiver notre jardin’ così Voltaire attraverso il suo personaggio, Candido, contemplava la dedizione a sé stessi, a non farsi distrarre dalle contingenze esterne, a confinarsi nel proprio recinto personale, nella propria zona di interesse e proprio entro questi limiti fiorire nel miglior modo possibile. Cosa succede però, quando a pochi passi da questo giardino si sta compiendo il genocidio più violento e osceno a cui la storia abbia mai assistito?
La zona di interesse è un film di Jonathan Glazer tratto dall’omonimo romanzo di Martin Amis sul primo comandante di Auschwitz, Rudolf Hoss che insieme alla sua famiglia vive serenamente in una villa con giardino e piscina accanto al campo di concentramento, la cui distanza è fissata solo dalle mura che delimitano l’abitazione. Il film, candidato a 5 premi oscar tra cui miglior film internazionale (che probabilmente vincerà, sottraendolo al nostro Garrone), decostruisce la retorica dei film sull’olocausto e per 1h 46 non vediamo mai cosa succede al di là del muro.
Il dolore che si consuma nel campo probabilmente lo spettatore comincia a metabolizzarlo già nei primi cinque minuti di totale schermo nero, ma non sarà mai figurato nel film, il dolore non arriva tramite la vista, ma attraverso l’udito. Difatti, la vita della famiglia di Hoss scorre apparentemente serena ma in sottofondo, giorno e notte, il genocidio si consuma e lo si percepisce solo attraverso il rumore dei macchinari, le urla dei prigionieri e gli spari che improvvisamente le fanno tacere o tramite vie traverse, una tosse isterica della suocera di Hoss provocata probabilmente dai fumi delle camere a gas e il bagno nel fiume dei bimbi rovinato dalla comparsa delle ceneri e dei resti dei corpi dei prigionieri.
Il film inizialmente è la testimonianza di una vita familiare che scorre senza particolari intoppi, ed è proprio di fronte a questa assenza di trama che lo spettatore si trova ad avere a che fare esclusivamente con l’indifferenza che scorre lenta, a pochi passi dalle atrocità del genocidio, ed è per questo che chi assiste ne esce maggiormente dilaniato. Ma dopo i primi tre quarti d’ora sembra comparire un filo di trama, il comandante Hoss è costretto al trasferimento e lo comunica alla moglie, la famiglia deve lasciare la villa. La moglie è disperata, non ha intenzione di lasciare il suo giardino in cui ha costruito finalmente una serenità familiare, uno spazio, una zona di interesse, la cui dedizione l’ha portata ad essere fieramente designata come ‘Regina di Auschwitz’.
Il brutale realismo risiede nell’impermeabilità dei componenti della famiglia rispetto alle atrocità commesse a cui sembrano quasi anestetizzati, il capofamiglia Rudolf cena con la famiglia, legge le favole alle figlie di ritorno da lavoro, come se il suo lavoro fosse una normale esecuzione. Auschwitz ci viene mostrata, ma nei giorni nostri, attraverso un flashforward che mostra alcune inservienti intente a pulire le teche in cui sono conservate le incalcolabili protesi dei deportati, le loro valigie, le loro scarpe. In questa scena il genocidio è diventato di nuovo immagine, una performance esposta allo scorrere quotidiano della vita, all’alienazione, alla routine delle visite, prova che nessun dolore sembra ad oggi aver fermato lo scorrere consuetudinario della vita. Ma per quanto ci si impegni a non far entrare le contingenze esterne nel proprio giardino, ad un certo punto il sistema immunitario ne è inevitabilmente intaccato, come una reazione ad un’infezione virale.
La pellicola si chiude con l’immagine di Hoss nauseato che sta per vomitare, ma non ci riesce. Non è il sintomo di un pentimento, ma è la reazione del corpo che volontariamente reagisce alle atrocità commesse, il dolore che non si rivela attraverso la linearità dell’immagine, trova la sua maggiore manifestazione attraverso la carne, il corpo di chi questo dolore l’ha commesso.