La vexata quaestio, che ha acceso il dibattito degli intellettuali, vicini o legati alla sinistra italiana, dalla seconda metà del XX secolo, è stato – lo è, in parte, ancora oggi, anche se con una rocambolesca inversione delle parti che registriamo in quell’area politica – il rapporto tra ideologia e creatività, ricostruito qualche anno fa da Aldo Perrone (La libertà dell’arte ferita a morte. Storia del Premio per un monumento a Paisiello a Taranto, Gutenberg edizioni, 2021), con estrema chiarezza e sostenuta da una rigorosa e documentata ricerca, in questo libro, nel quale affronta il caso del concorso per il Monumento a Paisiello, bandito a Taranto a metà degli anni cinquanta e al suo esito. Al centro, v’è il dibattito intorno all’astrattismo, in particolare ai rapporti tra la linea ideologica, interpretata da Togliatti, al tempo leader dei comunisti italiani, e le esperienze dei giovani artisti che orientarono, all’indomani del venticinque aprile, i loro interessi verso l’astrattismo.
Il più volte ricordato sprezzante giudizio, contenuto nell’articolo apparso su “Rinascita” e firmato dal leader con lo pseudonimo di Roderigo di Castiglia, all’indomani della Prima Mostra Nazionale d’Arte Contemporanea, tenutasi a Palazzo Re Enzo, a Bologna, nell’autunno del 1948, ci offre un preciso segnale di come la prospettiva del dialogo con gli intellettuali avvertiva in quegli anni, ma anche nel corso del decennio successivo, già forti accenti del ždanovismo, guida indiscussa del modello culturale che, da Mosca, si spandeva nei partiti comunisti, attivi in Europa e non solo.
Evito di riproporre il testo del citato articolo, tantomeno di soffermarmi sugli “scarabocchi” o “sulle cose mostruose”, appellativi di cui è farcito; sarebbe opportuno, invece, avere conoscenza della cultura storico artistica di Togliatti, che non era del tutto disinformata.
Quello che mi sollecita, per meglio comprendere l’importanza dell’ampio lavoro di ricostruzione storico critica svolto per anni da Perrone, è riprendere il concetto di intellettuale e, particolarmente, il processo di specchiamento che l’arte assume nello sviluppo della società.
Partirei, restando nell’ambito della sinistra storica italiana, dalle riflessioni che Gramsci affida alle scritture dei suoi ‘quaderni’. L’attenzione va al modo con il quale egli affronta il “problema della nuova creazione di un nuovo ceto intellettuale”, organico a quello che prospettava come nuova società. Riflessioni che articola, con estrema lucidità, nel XXIX Quaderno (ora in: Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura, Roma 1971), ove si legge che tale problema consiste “pertanto nell’elaborare criticamente l’attività intellettuale che in ognuno esiste in un certo grado di sviluppo, modificando il suo rapporto con lo sforzo muscolare-nervoso verso un nuovo equilibrio e ottenendo che lo stesso sforzo muscolare-nervoso, in quanto elemento di attività pratica generale, che innova perpetuamente il mondo fisico e sociale, diventi il fondamento di una nuova e integrale concezione del mondo”. Inoltre, nelle stesse pagine, evidenzia che il punto “centrale della quistione rimane la distinzione tra intellettuale categoria organica di un gruppo sociale fondamentale e intellettuale come categoria tradizionale; distinzione da cui scaturisce tutta una serie di problemi e di possibili ricerche storiche”. Una nuova concezione del mondo, cioè una visione orizzontale delle relazioni tra il pensiero, che tesse la prospettiva ideologica, e il ruolo che dovrà assume la figura dell’intellettuale e, nel nostro specifico, dell’artista, la cui esperienza creativa non risponde più ad un’arte educatrice. Nelle pagine dell’VIII Quaderno (ora in: Letteratura e vita nazionale, Roma 1971), Gramsci aveva già chiarito il ruolo dell’arte e quindi degli artisti nella costruzione di una “nuova cultura”, nella quale l’arte perde la presunzione di dover essere, come traspare dall’“arringa” togliattiana, educatrice. “L’arte è educatrice – evidenzia il filosofo, pensatore e politologo – in quanto arte, ma non in quanto ‘arte educatrice’, perché in tal caso è nulla e il nulla non può educare”.
Il leader pci ridusse l’astrattismo
a scarabocchio e lo mise all’indice
Nel concetto di arte, in quanto espressione della creatività dell’uomo sociale, cioè, avrebbe detto Marx, espressione dei “sensi capaci, dei sensi che si affermano quali umane forze essenziali dell’uomo”, non v’è una separazione tra forma e contenuto; entrambi concorrono o, meglio, dovrebbero prospettare una nuova cultura. L’astrattismo, banalmente ridotto da Togliatti a “scarabocchio”, si afferma come cifra propria del XX secolo. Gli artisti astrattisti, guardati con sospetto se non proprio posti all’indice dai vertici dei partiti comunisti europei, saranno gli artefici di un processo che spingerà la cultura artistica italiana fuori dalle secche di un perdurante novecentismo. Gli esempi significativi li ritroviamo nella perentoria affermazione di proclamarsi “formalisti e marxisti”, come sottoscriveranno i firmatari del manifesto del Gruppo Forma 1, nella primavera del 1947, nell’attività del M.A.C. milanese, dilatatesi, dal 1949, su tutta la penisola, oppure degli artisti che a Firenze daranno vita al movimento dell’Astrattismo Classico.
La negazione di un’arte rinnovatrice
condizionò l’iniziativa per il musicista
La mancata visione di un’arte, che fosse interprete di un rinnovamento della prospettiva sociale di essa, dunque, anche in forma critica, rispetto alla traccia ideologica, è stato il punto di frattura che ha determinato la presa di distanza dal Partito di diversi intellettuali italiani di quel tempo; parlo in particolare del 1956, anno del concorso tarantino, ma anche della repressione sovietica che, nell’autunno di quell’anno, pose fine alla così detta ‘rivoluzione ungherese’. E tale ‘quistione’, come ne scriveva Gramsci, Perrone l’affronta nelle battute iniziali, richiamando il dibattito che Elio Vittorini accese sulle pagine del “Politecnico”, a favore dell’autonomia e della libertà degli intellettuali: un confronto serrato che, ricorderemo, portò al Manifesto dei 101, con il quale gli intellettuali deplorarono l’intervento delle truppe sovietiche; tra i firmatari figuravano i nomi di Alberto Asor Rosa, Enzo Siciliano, al tempo giovani universitari, artisti quali Vespignani ed Elio Petri, critici d’arte come Corrado Maltese. È ben noto che il ‘silenzio’ sulla vicenda ungherese suonava come un appoggio del Partito Comunista Italiano all’intervento sovietico, determinando l’allontanamento e l’addio di intellettuali al tempo di primo piano: da Antonio Giolitti a Natalino Sapegno, a Carlo Aymonino ad Antonio Ghirelli, al giovane Italo Calvino, allo stesso Vittorini.
In questo contesto, si cala il concorso per il monumento a Giovanni Paisiello, tra i grandi musicisti del Settecento, al quale Taranto diede i natali. Il concorso, vinto dallo scultore siciliano Nino Franchina con l’architetto Ugo Sissa, non vedrà mai la sua realizzazione. I motivi specchiano quanto prima detto: la commissione culturale del PCI, al tempo nelle mani di Mario Alicata, deplorò la scelta della commissione, formata da figure di altissimo livello, tra questi Cesare Brandi, Bruno Zevi, Virgilio Guzzi e Marco Valsecchi, imponendo di fatto, al sindaco Nicola de Falco, di non realizzare l’opera, perché una forma strana, astratta, la gente non avrebbe compresa e accettata nella piazza antistante il Castello Aragonese, simbolo della città.
Una “progettazione – osservava Crispolti tracciando una prima cronologia dell’Arte ambientale italiana (cfr. il saggio Priorità ambientale urbana, in Id. con altri, Arte / architettura / città. Forum progetti e altro, Roma 2003) – architettonico-plastica di grande respiro ambientale”, linea sulla quale si porrà il concorso, del 1962-63, “per il Monumento alla Resistenza da realizzarsi a Cuneo – continua Crispolti – (risolto infine assai limitatamente con l’apposizione extraconcorsuale di una macroscultura di Umberto Mastroianni, replicata a Frosinone), ove una delle proposte più forti era costituita dall’insieme progettato da Somaini con Lucio Fontana e l’architetto Ico Parisi […]”.
La vicenda ricostruita dall’autore
anche per gli echi d’Oltralpe
Perrone, con puntuale capacità critica, contestualizza la scelta dell’opera nel clima di rinnovamento culturale che, in quegli anni, si respirava a Taranto, grazie all’operato di Antonio Rizzo, animatore, tra il 1949 e il 1952, del Premio Taranto, un avamposto di grande interesse del dibattito culturale italiano. Il Premio, nato per un racconto inedito di mare e apertosi, e apertosi, subito dopo, alla pittura, registrava la presenza di figure di grande rilievo: da Ungaretti ad Aldo Palazzeschi, a pittori come Fausto Pirandello, Alberto Savinio, Felice Casorati ed altri.
Diversamente da quanti hanno argomentato sul deplorevole seguito che avrà la vicenda del monumento a Paisiello di Franchina, in tal senso penso a quanto scriveva Bruno Zevi (cfr.: Cronache di architettura, voll. II e V, Bari 1971), Perrone ha allargato il campo di osservazione, documentando con estrema attenzione, quanto questa vicenda avesse avuto un’eco al di là delle Alpi. Insomma, opportunamente, ha spostato l’attenzione dall’ambito cittadino a quello di più ampio respiro nazionale e internazionale. Ha saputo tessere, con una scrittura viva e carica di passione, una narrazione storico critica, il cui ordito è tenuto insieme da una riflessione che tocca i pregiudizi ideologici del Partito di Togliatti, segnando una pagina non bella, proprio negli anni in cui la ‘guerra fredda’ registrava, con i fatti di Ungheria, il rinfuocarsi delle tensioni internazionali.
Perrone fa espliciti richiami, seguendo il susseguirsi degli eventi con chiari riferimenti, costruendo una puntuale analisi che poggia su una documentazione di prima mano, proposta anche come apparati illustrativi che restituiscono il complesso clima di quegli anni.
Franchina aveva dato forma ad un’astrazione che è proprio della musica, aveva dato una nuova forma, affinché, come nel pensiero gramsciano, essa fosse corpo di nuovi contenuti, ossia di una visione della cultura, specchio di un’Italia avviata ad una stagione di cambiamenti economici e sociali.
Un libro di grande interesse che restituisce al Mezzogiorno d’Italia, alla sua storia spesso scritta per lemmi, un’importante e significativa pagina contemporanea.