La rivolta di D10S: il corpo mistico tra il campione e la sua gente

In ricordo di quella stagione irripetibile, dopo la sua partenza da Napoli a Maradona viene dedicato un Centro sociale autogestito a Montesanto (il DAMM) e, in epoca più recente, addirittura uno slargo-santuario ai Quartieri Spagnoli. La Napoli istituzionale ha risposto intestandogli dopo la morte l’arena delle sue memorabili imprese. Tutti segni che la potentissima dimensione simbolica del fenomeno ha assorbito massicciamente lo spazio della storia

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Maradona, un culto laico irresistibile frutto di identificazioni profonde e in parte inenarrabili

“Ha segnato con la mano. È un genio. Un genio. È un atto politico. È la rivoluzione”
Renato Carpentieri in “È stata la mano di Dio”, di Paolo Sorrentino, 2021

 

Napoli può vantare una discreta frequenza di rivolte: sommovimenti improvvisi, ciascuno con una propria cifra specifica, che hanno sconvolto episodicamente l’ordine costituito e il senso comune. Rivolte e non rivoluzioni, appunto, perché a questi sommovimenti è mancato tutte le volte il tempo necessario per modificare in permanenza la “struttura” della città. Nell’analizzarle tutte insieme, la prima caratteristica che salta agli occhi è l’ineluttabilità delle rivolte napoletane: in nessun caso esse sono state (o hanno rappresentato) una forzatura, un colpo di mano arbitrario o, ancora peggio, strumentale. E sì che quasi sempre – tranne in un caso – hanno camminato sulle gambe di movimenti minoritari. La loro ineluttabilità va rapportata via via agli abusi del potere, al momento storico, alla conformazione antropologica assunta in due millenni e mezzo, “la sola città del mondo antico che non sia perita come Ilio, come Ninive, come Babilonia”. La seconda caratteristica, non meno importante della prima, è che tutte le rivolte napoletane hanno puntualmente abbandonato durante il loro compiersi la dimensione dialettica della storicità per entrare nello spazio più ampio e indefinito del simbolico. Almeno, si può ragionevolmente sostenere che sia stato così quattro volte. Tra il mese di luglio del 1647 e quello di aprile del 1648 con la parabola di Masaniello, tra il gennaio e il giugno del 1799, periodo durante il quale si compie l’esaltante e tragico destino della Repubblica giacobina, tra la fine di settembre e l’inizio di ottobre del 1943, quando la barbarie che in quel momento opprime l’Europa viene sospinta con le armi oltre la cinta daziaria, e nello spazio di tempo compreso tra il tardo pomeriggio del 5 luglio 1984 e la notte del 2 aprile 1991. Gli 80 mesi e 28 giorni in cui sono racchiusi l’abbrivo di un grande sogno collettivo, il suo apogeo e il malinconico e insieme traumatico declino: l’era di Diego Armando Maradona.

Incontro tra il dio del calcio

e la catarsi nuda della città

Generalmente (a eccezione, forse, del 1799) la rottura si è determinata nelle viscere della città, in quel “sentire” così particolare sul quale si sono esercitati in tanti: legioni di scrittori, poeti, storici, sociologi, filosofi, senza peraltro addivenire a una risolutiva definizione in grado di mettere tutti d’accordo. Ma la cifra saliente delle rivolte napoletane è rappresentato dal segnale che esse sono sempre state capace di trasmettere al mondo esterno generando, grazie alla loro esemplarità/simbolicità, riflessi profondi nel tempo storico in cui si sono sviluppate. Sicché Napoli si è trasformata tutte le volte in una frontiera e un orizzonte cui tendere, l’avamposto di una nuova era, la punta più avanzata di un processo di ri-civilizzazione. Anche quando al suo interno a farsi carico della rottura è stata solo una minoranza. Nell’ultima rivolta, come per effetto di un moto spiraliforme la faglia si è allargata e approfondita repentinamente per cerchi concentrici. Arrivando a inghiottire tutto, vale a dire la Napoli “alta” e la Napoli “bassa”, riunite in un progetto comune: sovvertire le gerarchie del pallone e affermare il regno della Grande Bellezza. L’incontro tra il Dio del calcio e una città che nel calcio cerca da sempre la catarsi rigeneratrice che la aiuti a rinascere ogni volta dalle proprie miserie e debolezze non poteva non accendere la miccia di una rivolta epocale. Per sette anni Napoli è stata laboratorio di uno stravolgimento radicale di codici consolidati da decenni di strapotere delle squadre del triangolo industriale del Nord. Un cambio radicale di equilibri e di paradigmi che si pose all’incrocio tra la teoria di Benjamin della rivoluzione come freno d’emergenza – ossia un’interruzione della continuità del dominio e contestuale re-incantamento del mondo, che dà voce e forza ai vinti della storia – e la lacaniana tesi del desiderio come primo motore della trasformazione.

La modalità attraverso la quale il club calcistico cittadino – che ha quasi natura immateriale essendo in prevalenza un grande sentimento popolare rispetto al quale è destinata a segnare il passo la stessa dimensione imprenditoriale – arriva a Maradona rappresenta un atto di ribellione. Quando mette in cantiere la trattativa con il Barcellona per il trasferimento in azzurro del più grande giocatore di tutti i tempi, il Napoli è fuori dal Palazzo del pallone. Il suo presidente, Corrado Ferlaino, non ha nemmeno i soldi necessari per concludere l’affare. Li raccoglie forzando le regole bancarie – con la complicità decisiva degli stessi banchieri – e aggirando con un colpo di genio che sembra partorito dal fondaco più oscuro dei Quartieri Spagnoli o dei Decumani la rigida e escludente burocrazia pallonara: perché gli uffici dove bisogna depositare i contratti dei calciatori è a Milano, come vuole l’asimmetrica geografia del potere calcistico, e l’Ingegnere si fa beffe dei milanesi come Totò e Nino Taranto di Deciocavallo nella famosa pellicola. Da quel momento nulla sarà come prima, perché l’atto “eversivo” del massimo dirigente del Napoli si abbatte con la potenza di un tornado sull’intero movimento calcistico italiano.

Controffensiva del potere

alla rivoluzione di Diego

Sul Maradona rivoluzionario di rito bolivariano, amico di Fidel Castro, sostenitore del Venezuela di Chavez e di tutti i movimenti che lottano nell’America Latina per l’affermazione del socialismo, e sulla sua battaglia contro la corruzione nella Fifa e per un calcio finalmente sganciato dalla dimensione affaristica sono state scritte migliaia di pagine, composte canzoni, girata tanta di quella pellicola da poter avvolgere il pianeta. Assai poco è stato analizzato l’impatto che Egli ha avuto, invece, sugli equilibri complessivi del calcio in Italia. Acquistandolo, nell’estate del 1984, l’Ingegner Ferlaino non si assicurò solo il più forte giocatore di tutti i tempi, ma gettò le basi perché, per circa una decina d’anni, l’asse egemonico della palla che rotola cambiasse radicalmente le proprie coordinate geografiche. Per la prima volta in 60 anni di storia, il Napoli riusciva a condizionare e orientare la narrazione dello sport più seguito e popolare. Non era mai accaduto prima, non sarebbe mai più accaduto successivamente. Di quella squadra capitanata dal Dio del pallone perfino la grande stampa specializzata e no, che nei decenni precedenti avevano costruito l’epica della grande Inter, del grande Milan e della grande Juve, cominciarono ad avere prima rispetto, poi addirittura soggezione. E la stessa cosa avvenne in campo, dove fu drasticamente ridimensionato, quasi annullato, l’atavico gap lamentato dal club azzurro e dai suoi sostenitori: la sudditanza psicologica degli arbitri nei confronti delle grandi società del Nord. Sotto questi aspetti, il settennato maradoniano avrebbe lasciato un segno così profondo nella storia del calcio italiano da scatenare, negli anni successivi, una reazione perfino superiore, nelle modalità e nelle conseguenze, agli effetti che era stato capace di produrre. Non poteva durare a lungo, e infatti non durò a lungo. La controffensiva del potere passò prima attraverso la delegittimazione strisciante (la cocaina, le cattive frequentazioni nei vicoli e nelle notti di perdizione napoletane, il fumettone del figlio illegittimo prima ripudiato e poi riconosciuto a furor di stampa scandalistica), poi con l’attacco diretto: un controllo antidoping “mirato”, la lunga squalifica, la fuga. Di notte. Il ritorno del pendolo dell’egemonia dalle parti di Milano, e soprattutto Torino, avrebbe riaperto le porte all’opacità, agli intrallazzi, al calcio di sempre.

L’insperata saldatura

tra l’«alto» e il «basso»

La rivolta di Maradona, ultimo grande sommovimento che abbia riguardato Napoli nella sua quasi trimillenaria storia, nacque nel calore soffocante di un pomeriggio di luglio, nello stadio che adesso porta il suo nome. Quel “Buonasera napolitani” pronunciato con voce sicura nel microfono fu il soffio che contribuì alla creazione di uno laicissimo corpo mistico tra un popolo e il suo condottiero. Popolo, appunto: la cifra saliente della rivolta di D10S è questa parola, che a Napoli è bene pronunciare con circospezione. Perfino le forze del cambiamento, nella loro esperienza di lotta e di governo della città, l’hanno fatto. Per tutta la seconda parte del ventesimo secolo le classi popolari hanno rappresentato un dilemma per la sinistra istituzionale napoletana e il suo modo di pensare la città. Una diffidenza che ha spinto qualche studioso a parlare di sindrome dell’”eterno abietto”: da un lato, la mobilitazione della città sottoproletaria (la plebe) era considerata un obiettivo cruciale per una politica di sinistra, dall’altro, le forme di vita pre-politiche delle classi subalterne (il lazzaronismo, l’arte di arrangiarsi, il ribellismo spontaneista naturalmente “eversivo” delle regole) venivano percepite come un pericolo, un ostacolo al progetto. Una visione, questa, destinata inevitabilmente a arretrare di fronte al miracolo laico che Maradona riesce a realizzare, e che passa attraverso la saldatura che la sua rivolta fa tra l’alto e il basso. E’ stata questa unione, basata sulle affinità psicologiche e antropologiche che D10S e i napoletani di ogni estrazione sociale scoprono di avere, a decretare il successo della rivolta maradoniana. In ricordo di quella stagione irripetibile, dopo la sua partenza da Napoli a D10S viene dedicato un Centro sociale autogestito a Montesanto (il DAMM) e, in epoca più recente, addirittura uno slargo-santuario ai Quartieri Spagnoli. La Napoli istituzionale ha risposto intestandogli dopo la morte l’arena delle sue memorabili imprese. Tutti segni che la potentissima dimensione simbolica del fenomeno ha assorbito massicciamente lo spazio della storia, talché ormai l’identificazione tra il campione e la maglia azzurra può dirsi a giusta ragione completa: nel mondo il Napoli è (e sarà ancora a lungo) Maradona. Tutto ciò, in un contesto in cui il calcio rappresenta il principale, se non unico, fattore di identificazione collettiva, è destinato a rimanere per un tempo indefinibile un elemento peculiare, se non esclusivo, dell’identità cittadina. E questo è il gol più bello messo a segno da D10S.

  • dal volume “Studiare Maradona /Storie, tracce, emozioni/” a cura di Alfonso Amendola e Jvan Sica – Rogas Edizioni, Roma 2024
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