La più colta sperimentazione frequentata da Proietti con un “dubbioso” disincanto

Leggendo il libro di Claudio Pallottini, sono gli inizi teatrali di Proietti che colpiscono: Cobelli, Calenda, le cantine, Carmelo Bene; insomma, la migliore e più colta sperimentazione. Si coglie, tuttavia, un suo scoramento per non essere considerato da certi ambienti intellettuali che seppure lo ritengono uno tra i più dotati attori della sua generazione gli imputano d’impegnarsi poco per la causa. Quale causa, poi? Non si sa bene. Consorterie che, spesso, dietro i fumi ideologici nascondono fame di potere...

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Pubblichiamo l’intervento del regista Pasquale De Cristofaro in occasione della giornata di studi su Gigi Proietti, organizzata nel quarto anniversario della morte dell’attore dall’Università di Salerno in stretta collaborazione con il nostro magazinme RQ-Resistenze Quotidiane. Si tratta di una riflessione sul teatro contemporaneo, svolta attraverso la vita artistica di uno dei massimi protagonisti della scena contemporanea: in essa vi sono l’evoluzione, spesso contrastata, del linguaggio teatrale, le nuove frontiere della sperimentazione e le minacce di un potere che talvolta toglie spazio alla libertà di creare.

 

“Mi raccomando siate maniacali. – ci ripete – Recitare in italiano è difficilissimo. L’italiano è una lingua convenzionale che quasi non esiste, e ci vuole molto esercizio per farla diventare la vostra lingua”.

Qualcuno chiede del dialetto: “Ma dobbiamo dimenticarlo?” “Mai! – Risponde Gigi- Il dialetto è fondamentale e anche nei testi in lingua serve a dire bene le battute”.

“Come?”

“Ad esempio, chiedendovi come la direste in dialetto, dove andreste ad appoggiare. Il dialetto è una grande risorsa per trovare la vostra espressività”.

Il regista Pasquale De Cristofaro pronuncia, davanti a Claudio Pallottini e Carlotta Proietti, il suo intervento in occasione della presentazione del libro su Gigi Proietti

Su questo, ha detto, Pasolini, cose definitive, che non sto a ripetervi. Restando intorno al perimetro della scena, questo discorso, apparentemente laterale, riferito alla questione della pronunciabilità della lingua in scena, mette il dito nella piaga e rivela uno dei nodi più discussi da chi studia o fa teatro. La difficoltà per ogni attore italiano e trovarsi a parlare una lingua che è una antilingua (una lingua cioè che nessuno veramente parla, una lingua bugiarda), come la definisce Meldolesi, in uno libro davvero epocale, cioè, I Fondamenti del teatro italiano. Qui, lo studioso fa la tara di quella che è stata la specificità del teatro italiano rispetto alle grandi tradizioni europee. L’anomalia e/o ritardo del teatro italiano procederebbe dalla sua specificità, riferibile alla tradizione del grande attore. La regia imponendo ordine nel caos della scena avrebbe in Italia prodotto un depauperamento della ricchezza lessicale della tradizione. Il problema, da noi, lo affrontano con maggiore consapevolezza, proprio gli autori che scrivono per la scena a cominciare da Pirandello, per non parlare di Eduardo, o Dario Fo, quando recupera un dialetto padano dal sapore vagamente ruzantino. Dietro i testi in lingua di Pirandello, infatti, preme, con un imbarazzante corpo a corpo, il suo originario dialetto che renderà la sua scrittura molto più espressiva rispetto a tanti altri autori che resteranno autori per la biblioteca e non per la scena. Dopotutto, e non dico nulla di nuovo, se è vero come è vero che le grandi lingue della scena italiana sono proprio le grandi tradizioni locali: siciliano, napoletano, lombardoveneto, ligure e romano, resta per l’attore italiano la fatica doppia di rendere il suo italiano accettabile per le platee che sentono questa come una lingua estranea e non efficace. Quando Proietti, si pone il problema della tradizione italiana rispetto a quelle europee, si chiede perché in Italia non si creino repertori in cui Goldoni, Pirandello o il grande Eduardo risultino essere i reali protagonisti del rinnovamento. Non sono la regia e i registi la panacea del teatro ma questi fiumi carsici, queste lingue per-verse, libertine, scostumate, terragne che nutrono l’espressività degli attori rendendoli necessari. Non il caricaturale Pelosini, insegnante in Accademia, ma il verso parodico che ne fa Carmelo Bene sulla scia del grande Petrolini. Non a caso sarà Petrolini uno degli idoli anche di Proietti.

Altra cosa che mi ha molto colpito leggendo questo libro di Pallottini, sono gli inizi teatrali di Proietti: Cobelli, Calenda, le cantine, Carmelo Bene; insomma, la migliore e più colta sperimentazione che lui frequenta con un qualche scetticismo che presto si manifesterà con un “dubbioso” disincanto. Dubito ergo sum. Lo salvano i suoi inizi di cantante che hanno mantenuto vivo in lui l’amore per la cultura del popolo e, allo stesso tempo, allenato il suo strumento rendendolo duttile e virtuoso al punto da renderlo unico. Rilevo, però, in diverse pagine, un suo scoramento per non essere considerato da certi ambienti intellettuali che seppure lo ritengono uno tra i più dotati attori della sua generazione gli imputano d’impegnarsi poco per la causa. Quale causa, poi? Non si sa bene. Consorterie che, spesso, dietro i fumi ideologici nascondono fame di potere; occupazione di spazi e consumo di risorse pubbliche per soddisfare le proprie smanie artistiche. Proietti, in questo è anche un esempio etico. Rischia di suo, avventurandosi in imprese anche molto difficili dove solo l’amore e il lavoro continuo possono determinare il successo. Certo, ama l’applauso; spesso, nel libro è detto chiaramente, lo sollecita, lo aspetta. Ne sente la necessità per ricaricarsi. Sono gli applausi che nelle sue ultime apparizioni gli permetteranno nonostante la fatica e la sofferenza a sostenerlo fino alla fine dello spettacolo e a regalare al suo pubblico i tanti bis richiesti da una platea affascinata dalla sua forza e dal suo talento. Una gioia, la gioia della scena sempre presente. C’è un grande maestro del novecento Vachtangov, che scrive addirittura un libro che porta il titolo: “La gioia della scena”.

Proietti, inoltre, nelle sue lunghe e amorevoli conversazioni con l’autore, impartisce contropelo, pillole di saggezza per vivere compiutamente la scena; sotto forma di umili insegnamenti, quasi sottovoce affronta questioni capitali. Proprio lui che diffida di chi si definisce artista, lui, molto più opportunamente, si definisce un artigiano (Anche Eduardo, lo ha ricordato pochi giorni fa Ferruccio Marotti in un convegno al Mercadante, riconduceva il suo lavoro al lavoro di un artigiano). Ho detto opportunamente e non umilmente perché in questi casi umilmente sarebbe un termine inopportuno. Proietti e ben consapevole del suo talento, non lo nasconde, non lo minimizza ma lo vive come lo vivono i grandi. Non lo spreca, il suo talento, in questioni di lana caprina; lo mette a disposizione per cambiare il sistema teatrale italiano, spesso, impantanato in logiche di potere e basta. Il suo è un sano narcisismo, non un narcisismo patologico. E arrivo, al punto che più forse a me interessa, la sua grande vocazione pedagogica. Non invadente, pudica che però lascia semi profondi e che in molti dei suoi allievi diventa una riconoscenza assoluta. Sanno d’aver perso un maestro e un padre che li segue anche dopo che hanno finito il loro corso di studio. Li accarezza, li rimprovera ma non li lascia mai soli. Lui c’è. E questo, forse, la sua dote più grande: la generosità. Ci sono stati esempi di grandi attori che nulla hanno lasciato in eredità. Lui è vivo nei suoi allievi. Lui non è andato mai via, per questi ragazzi, oggi attori maturi e affermati. Il teatro non si impara sui libri. Il teatro e un’esperienza, un viaggio; e il suo viaggio, il viaggio di Proietti, ne sono sicuro, non si è ancora interrotto e durerà ancora tanto.

Pasquale De Cristofaro

Regista e pedagogo teatrale, ha diretto le rassegne, Teatro della Notte e Corponovecento. Ha insegnato in qualità di docente a contratto presso Università e Conservatori, attualmente insegna Storia del Teatro nell’indirizzo di Sperimentazione Teatro del Liceo Artistico di Salerno ed è coordinatore didattico di una scuola di alta formazione teatrale nelle Marche. Ha diretto molti spettacoli nei maggiori teatri italiani e pubblicato vari libri sul teatro del novecento.

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