Uno dei più laceranti dilemmi contemporanei, suscitato dalle interrogazioni del pluralismo, è democrazia reale o democrazia possibile? Dubbio intrinsecamente morale, interno a quell’area compresa tra etica e politica che fu esplorata anni fa da Salvatore Veca proprio con l’intento di dimostrare che il perseguimento di un pluralismo possibile non esclude affatto, anzi certamente include, una versione morale del mondo politico. Naturalmente, affermare questa tesi è possibile se si è disponibili a considerare la fisionomia plurale della nostra democrazia, che andrebbe valutata non soltanto come un dato in sé ma come un valore. Si tratta di un percorso accidentato e impervio che induce a considerare, per essere più puntuali nei giudizi, i nessi tra giustizia e democrazia, poli indispensabili per distendere valutazioni credibili lungo la loro distanza.
Essere democratico per giudizio
convenzionale non significa nulla
L’aggettivo democratico, d’altra parte, indica una conformità ai principi della democrazia ed è proprio questa rispondenza (o concordanza) che appare fortemente insidiata nella nostra società in crisi. La riflessione vale sia che l’aggettivo democratico si riferisca ad una persona, sia che qualifichi le istituzioni o i partiti politici. Questi ultimi sono democratici per convenzione. Non avrebbero senso, infatti, loro ruoli e funzioni ispirati a forme di governo che fossero disancorate dalla regola basica del potere esercitato dal popolo attraverso rappresentanti eletti liberamente. Essere democratico per giudizio convenzionale non significa, però, esserlo per davvero, altrimenti in Italia – dove, come in altre parti del mondo, esiste un partito che porta nel nome l’emblema di democratico – non vi sarebbero problemi di sorta. Invece di problemi ne esistono tanti e sono pure sotto gli occhi di tutti.
L’Sos nel 2016 dei filosofi
Cacciatore e Cantillo
Alcuni anni fa proprio questo rovello sull’autentico tasso di democrazia nelle nostre forze politiche e nella società meridionale, e campana in particolare, spinse i compianti filosofi Giuseppe Cacciatore e Pino Cantillo a lanciare, alla vigilia di elezioni politiche, un appello all’unità – su una base rigorosamente programmatica – tra tutte le sigle politiche attive alla sinistra del Pd. L’invito alla coesione apparve concreto e operativo, quindi poco ideologico o filosofico, perché intento a disinnescare la bomba dell’astensionismo, già tanto minacciosa nelle precedenti elezioni e in grado di dar vita a un maggioritario fronte anti-istituzionale.
Il punto di partenza dei due intellettuali, che alla politica dedicarono oltre che parte della loro attività di ricerca anche articolati percorsi istituzionali, originava da un dato ritenuto storico: la vittoria del No al referendum del 4 dicembre 2016, ottenuta da donne e uomini che, al di là della censura di una riforma traballante e discutibile, intesero lanciare un appello di base per una democrazia compiuta, sottolineando gli elementi che si oppongono al raggiungimento di tale obiettivo, cioè il lavoro mancante, la globalizzazione che virtualizza e deforma l’economia, la crisi profonda della cultura e della formazione, la carenza di nuove forme di welfare in grado di garantire la dignità della persona, le contraddizioni dello sviluppo urbano asservito a logiche produttivistiche e malavitose che fanno strame dei principi della solidarietà e dell’accoglienza. Temi, questi, che restano alla base di una convivenza possibile e che potrebbero essere coltivati, checché se ne pensi, nei partiti politici. Essi, in Italia, hanno imposto e disseminato, a partire dall’unità, quasi in esclusiva, tracce di cultura democratica. Quest’ultima, ad onor del vero, viene in genere riferita a personalità dell’azionismo e del liberalismo e non anche ai leader delle due grandi (sub)culture, la cattolica e la marxista, accreditate più che altro come rilevanti pratiche politiche. I nostri due grandi partiti di massa, rileva in proposito lo storico Marcello Flores, argomentando intorno ad una tesi della quale era profondamente convinto Mario Pannunzio, non hanno fondato la loro cultura sui valori della democrazia, ma hanno soltanto riconosciuto quei valori, il che non è proprio la stessa cosa.
La grande delusione
della nascita del PD
La nascita del Pd, ottenuta dieci anni fa dalla confluenza in una stessa area politica dei Ds e della Margherita, aveva proprio la finalità di dotare due imponenti grandi organizzazioni partitiche di una forte e riconoscibile cultura democratica, esiti che purtroppo non sono stati mai visibili, tant’è che la conformità ai principi democratici viene ancora cercata a sinistra del Pd, tra divisioni, intese, assetti friabili e antagonismi poco produttivi e comprensibili.
C’è qualche chiave di lettura che potrebbe orientare nella ricerca delle cause di questi obiettivi mancati, che determinano la fragilità della nostra intelaiatura democratica. Una di esse è rinvenibile nello stesso nucleo della proposta di Michele Salvati, da cui trasse origine e “giustificazione” il Pd, creare cioè un grosso partito sul versante del centro della coalizione, “in grado di strappare una buona fetta di elettori moderati a Forza Italia”. Un intento tattico, in considerazione del sistema elettorale del tempo e della frammentazione dell’area di governo in una dozzina di partitini anche minuscoli ma non per questo meno famelici. L’obiettivo, uno tra i tanti, ma certamente non il più marginale, fu dunque quello di dar vita ad una “Forza Italia” di centro-sinistra, rilevata l’inidoneità della Margherita a ricoprire tale ruolo, anche a causa delle sue limitate dimensioni elettorali, e accertata l’incapacità dei Ds di caricarsi di questa funzione, soprattutto in considerazione della divisione interna tra una posizione moderata e un’altra radicale. Tra l’altro, se l’obiettivo più concreto era quello di “spostare verso il centro l’asse della coalizione”, tale compito non poteva essere svolto da un partito considerato dall’opinione pubblica ex comunista, erede della tradizione dei grandi duelli con i socialisti per fini prevalentemente egemonici.
Sta di fatto che la cultura democratica tanto attesa per poter conferire ai due partiti unificati (Ds e Margherita) una struttura ma anche un tessuto culturale omogeneo non è nata ed anche le contraddizioni politiche del nostro paese sono rimaste di conseguenza ingessate e mai risolte in chiave autenticamente liberale e democratica, per cui continuiamo a soggiacere ad un ritmo espansivo della storia europea e mondiale.
L’attuale ceto politico
figlio del blocco sociale
È sotto gli occhi di tutti che l’attuale ceto politico, in gran parte erede del vecchio blocco sociale e alimentato dalla cooptazione, è orientato a difendere rendite di posizione. In giro ancora calcano la scena personaggi che si autodefiniscono “democratici”, ma che per anni sono stati mantenuti in vita dal bipolarismo coatto: una dirigenza scadente e cooptata, priva di ogni consapevolezza dei diritti di libertà, tutta interna ad un modello ottocentesco rivisitato ed attualizzato dalle corruttele del ‘900, dirigenza segnata da una genetica impossibilità di darsi obiettivi compatibili con la nostra società del rischio, bisognosa di un moderno processo di apprendimento globale, di quella che Ulrick Beck definiva cosmopolitizzazione o secondo illuminismo, utili per unificare tradizioni culturali anche alternative e imparare a vivere nella pluralità. Sono obiettivi che, se raggiunti, ci porterebbero verso l’auspicata seconda modernità, dentro la quale potrebbero ricomparire i luoghi e l’anima di una politica liberale attualmente dismessa o negata, che dovrebbe fare i conti con la società del capitale virtuale e delle idee guida, scenari molto diversi da quelli della piena occupazione e delle società capitalistiche del reddito.
Manca un Partito democrativo
che scelga riforme e futuro
L’esigenza di un autentico partito democratico nasce, a questo punto, dalla necessità di aprire una grande stagione politica di assestamento e di riequilibrio mondiale, che passi per la crescita sostenibile, la limitazione delle disuguaglianze, calando all’interno della stessa produzione capitalistica una sonda in grado di iniettare nel profitto integratori di equità. Occorre, dunque, aprire una vertenza complessa dentro la storia contemporanea per elaborare prospettive che siano ad un tempo di governo e di sviluppo: potrebbe, chissà, a questo punto profilarsi un compito nuovo e concreto per la sinistra italiana ed europea, talvolta ancora attratte dal mito dell’uomo nuovo e da incongruenti messianismi e distratte rispetto alla disperata richiesta che sale dall’umanità di abbattere il muro tra il Nord e il Sud del mondo. Non è stato del tutto sbagliato aver salvato le banche, ma ora sembra essere venuto il momento di salvare i giovani, inventare per loro una vita liberata dalla schiavitù del bisogno e della dipendenza. Se non si farà questo, se non entrerà in politica la stessa metodologia innovativa che ha rivoluzionato il mercato e la cultura tecnologica, se non si attrezzerà una strategia democratica di sviluppo attenta all’innovazione scientifica e all’intensità della conoscenza, capace di analisi profonde e predittive, l’Ue continuerà ad apparire come un destino inflitto e il federalismo come una inattingibile prospettiva.Ci si dovrà chiedere se per essere riformisti basterà professarsi tali. Non credo che possa essere più così, tant’è che l’Unione Europea, nonostante proteste e distinguo degli Stati sottoscrittori, difficilmente ammette che il calcolo del deficit sul debito possa cambiare. Non vi sarà, pertanto, per l’Italia, una sostanziale differente metodologia di rapporto ai fini dei richiedibili aggiustamenti di bilancio che l’Unione vorrà proporre e, di conseguenza, non è detto che l’attuale manovrina sarà ritenuta soddisfacente, con apprensioni conseguenti per un nuovo, eventuale riequilibrio finanziario invernale. Sarà importante, a questo punto, verificare dov’è finita l’anima del Partito democratico, che è appunto il riformismo. Esistono snodi della storia nei quali i fautori del cambiamento e del progresso non sono riusciti a cambiare niente e, soprattutto, non hanno dato un valore reale alla libertà, che non può dissociarsi dal principio di uguaglianza.
La crisi della sinistra
blocca la vita del Paese
L’auspicio è che si possa recuperare a sinistra, imboccando il viale delle riforme e della giustizia sociale. L’Italia è un paese bloccato e declinante e la prospettiva è sconfortante se appassisce del tutto anche il partito che dovrebbe incarnare l’ideale del rinnovamento del paese. Per rendere reale questo obiettivo, occorre però saper andare oltre i localismi e le chiusure corporative, scenario per ora inimmaginabile
L’appello di sette anni fa dei filosofi campani Cacciatore e Cantillo appare, per questi motivi, come la provvidenziale indicazione di un laboratorio possibile, di un’area di lavoro praticabile a sinistra del Pd, di uno sviluppo naturale di idee e patrimoni di esperienze da rilanciare nell’interesse generale per superare una crisi che deve diventare al più presto la nostra opportunità. Edgard Morin, il sociologo che parla dall’alto della sua esperienza di inossidabile ultracentenario, ci invita in questi giorni a considerare le fratture, le differenze e le trasgressioni dalla norma come passaggi produttivi di esiti positivi (“l’ordre n’est plus roi / l’ordine non è più un re”).
Negli ultimi anni, è stato, inoltre, espunto dalla discussione pubblica ogni riferimento alla grande questione democratica, che dovrebbe essere centrale e autentica, soprattutto in un paese che affonda. I due filosofi che entrarono nella nostra amara verità politica per invitarci a vivere la democrazia concretamente, ci ricordano ancora oggi che la Costituzione (lo pensava già Calamandrei) deve essere vissuta come una pratica quotidiana e una veglia, se non vogliamo celebrare il suo disfacimento. E la cultura democratica, oggigiorno, è proprio questa disperata domanda di cambiamento e di riforme che, sulle macerie dell’industrializzazione di massa e delle sue promesse tradite, possano dar vita ad un autentico liberalismo di sinistra da sempre vanamente atteso.