La notizia è riportata anche da Massimo Basile su la Repubblica.it. Si tratta dell’esibizione della famosa cantante Rihanna nell’intervallo della finale del football americano: “NEW YORK – Troppe parolacce, movimenti mozzafiato di anca, e poi quel pancione mostrato senza pudore. Dicono che lo show sulfureo andato in scena nell’intervallo del Super Bowl (la finale è stata vinta dai Kansas City Chiefs) non sia piaciuto ai ricchi anziani residenti della Florida”. Tra questi c’era un signore di 76 anni residente a Palm Beach ovvero Donald Trump. Ha definito lo show “un fallimento epico”, “la peggiore esibizione dell’halftime della storia del Super Bowl: questo dopo aver insultato molto più della metà della nostra nazione, che è già in serio declino, con le sue parole ripugnanti ed offensive”. Il tycoon, è noto, ha litigato spesso con l’artista che invitava i suoi fans a non seguirlo, soprattutto politicamente. Questo è noto ma, questa volta c’è di mezzo il corpo. Il corpo di una donna-artista che se ne mostra padrona e decide di esibirlo per comunicare al pubblico la sua nuova, prossima maternità. Soprattutto la sua distanza siderale dal rappresentante maschilista di politiche antidemocratiche culturali, sociali, economiche.
Rihanna, non ha fatto altro che comunicare, attraverso il suo pancione, il suo essere incinta ma anche le sue idee sulla femminilità, sulla maternità e sulla maniera di condividerle. Nulla di più.
Ne La società dello spettacolo, ci ha insegnato, già da moltissimi anni Guy Debord, la spettacolarizzazione della realtà diventa centrale nella costruzione di relazioni sociali, qualunque queste siano. È lo spettacolo la “merce” più scambiata, per qualunque fine, per qualunque esigenza. Quindi Trump interviene nello spettacolo per far salire le quotazioni delle sue idee-prodotto-politico.
Tuttavia, il problema politico-culturale del quale mi sto interessando è un altro. Il corpo, il suo irrompere sulla scena, per intero o mediante una sua parte per il tutto, come possibilità di costruire nuove consapevolezze e nuove presenze culturali. In altre parole, noi siamo il nostro corpo insieme al nostro cervello (o mente che dir si voglia).
Dunque, per capire chi siamo, abbiamo bisogno di conoscere, ascoltare, capire, trasformare il nostro corpo. Francesco Remotti, ed esempio, ha definito la chirurgia estetica occidentale contemporanea come una delle «mode antropopoietiche» umane, quelle modificazioni corporali, fisiche, che servono culturalmente a «fare umanità» ossia a costruire, «foggiare» l’identità culturale e l’appartenenza degli individui ad un gruppo sociale. Cose, queste, che passano attraverso forme di incorporazione tali da rendere concreti i simboli dell’identità e dell’appartenenza; una concretezza che è tanto personale e ostensiva da passare attraverso la modificazione dei corpi che tentano, allo stesso tempo, di rimanere diversi ed essere uguali – mediamente – a quelli degli altri. Gli interventi chirurgico-estetici sono proprio questo. Una maniera di conformare la propria «essenza» culturale in una dialettica io/gruppo che passa attraverso il corpo. Una caratteristica che appartiene a tutti gli individui e i gruppi umani della storia del mondo. Solo che la chirurgia estetica occulta le modificazioni fisiche apportate sotto un’apparente proposta di naturalità, in un’equazione del tipo «più bello = più naturale».
Il corpo come cultura non come natura, dunque. Come pratica incorporativa della propria cultura. Come apprendimento delle pratiche e dei saperi anche attraverso la dimensione fisica, ovvero: inculturazione per incorporazione.
È questa la questione fondamentale che traspare ripensando l’esibizione del corpo materno di Rihanna, legato alla sua cultura libertaria, simbolo vivente e incorporato di un’identità culturalmente democratica che non ha nulla da nascondere a nessuno. La reazione di Trump e dei suoi sostenitori è, invece, quella dei perfetti conservatori che si considerano offesi da tutto ciò che è naturale o vissuto e mostrato con naturalezza e democrazia che poi, a ben pensarci, significa con consapevole attenzione culturale per sé, per agli altri e per i contesti in cui tutto ciò viene comunicato.
Corpo come cultura, dunque, come nel caso di Chiara Ferragni nell’appena trascorsa settimana sanremese. Con i suoi abiti, la co-conduttrice del festival ha portato sul palco le questioni a lei care. Sono gli abiti a parlare per lei di maternità, di liberazione del corpo, di aborto sicuro e di procreazione assistita. Insomma di empowerment, un fenomeno antropopoietico che mira alla conquista della consapevolezza di sé e del controllo sulle proprie scelte, decisioni e azioni, sia nell’ambito delle relazioni personali sia in quello della vita politica e sociale. Cos’altro sarebbero la corazza d’oro scolpita sul seno della co-conduttrice o l’abito che riproduce le forme di un corpo che è il suo ma che lo è ancora di più perché ripensato e mostrato culturalmente, non naturalmente, come avvolto in una “sindone” che non ha nulla di sovrannaturale ma è puro pensiero creativo incorporato? Cos’è il gioiello che le pende al collo e valorizza il lungo abito nero? Ecco come ce lo ha descritto lei stessa. «una collana a forma di utero composta da diverse sezioni di corpo di donna è il simbolo dell’attivismo per i diritti riproduttivi che portiamo a Sanremo».
Sono i diritti umani, maschili e femminili, quelli che la pancia di Rihanna e il corpo di Ferragni ci ricordano antropoieticamente.
Siamo di fronte all’evidenza che la cultura di ogni persona dipende dal modo in cui gli individui abitano i propri corpi e che, forse, anche tutti gli altri aspetti della cultura, di qualsiasi cultura, sono radicati nella corporeità. «Incorporati» per dirla con l’antropologo Csordas .
Nei suoi studi sull’«incorporazione», lo studioso spiega che «il corpo è la fonte soggettiva e il terreno intersoggettivo dell’esperienza» e che, pertanto, «la cultura e l’esperienza (…) possono essere comprese dal punto di vista dell’essere-nel-mondo corporeo». Tutto ciò, ripeto, è definito, da Csordas, come «incorporazione». Dunque, l’esserci, l’umana presenza non è solo questione immateriale, cerebrale. Esserci nel mondo è questione di fisicità che diventa pensiero e viceversa, senza sosta, senza soluzione. Impedire, ma anche essere contrari a tale espressione di consapevolezza è un crimine contro l’Umanità e contro la democrazia. È disprezzo per la cultura della diversità.
A questo punto, facciamo un passo indietro; torniamo al 16 settembre del 2022 e chiediamoci: perché La Gasht-e Ershad – la polizia morale iraniana – arresta, violenta e uccide le giovani donne, come Amini, ree di aver indossato pantaloni stretti e velo (hijab) largo? Ma, soprattutto, proviamo a riflettere sulle modalità della protesta femminile che ha, ben presto, superato le frontiere persiane e coinvolto moltissime giovani e anziane, note e meno note, credenti o laiche. Tutte loro protestano contro le uccisioni immotivate e contro la mancanza di democrazia tagliandosi, in maniera pubblica, eclatante, enfatica una ciocca di capelli; piangendo la morte delle vittime e gridando contro chi tale morte aveva provocato, urlando contro quel potere sordo e assoluto, sprezzante delle libertà e della vita. Un potere maschile che si fonda su corpi femminili che non gli appartengono. Una vibrante forma di protesta che ha inasprito la reazione della Gasht-e Ershad. Una reazione che ha spinto, ancora di più, le donne iraniane, a sfidare la legge togliendosi il velo, bruciandolo in pubblico, tagliandosi ciocche di capelli., mostrando fisicamente la loro esistenza e la loro intelligenza.
Ancora una volta sono i corpi che parlano. I corpi delle donne che non hanno il Super Bowl o le dirette festivaliere televisive per mostrare, comunicare le loro ragioni. Si mutilano dei loro capelli per esprimere cordoglio e piangere quei corpi delle loro giovanissime compagne trucidate da mani reazionarie e assassine, feroci e, purtroppo, maschili.