Chiamare i fenomeni sociali con il loro nome aiuta a comprenderli e affrontarli. Il fenomeno che spiega la violenza contro le donne ha un nome preciso: si chiama patriarcato. Patriarcato significa potere dei maschi, in quanto maschi, sulle donne e su tutte le altre persone associate al femminile, in quanto donne e non maschi. E si tratta di un potere antico, con forme storiche determinate, ancora attualmente in vigore nonostante i colpi che ad esso hanno inferto i processi di liberazione femminile e la conquista di diritti universalistici, fondati sulla comune appartenenza all’umanità.
A questi processi di affermazione femminile, dunque anche di potere sociale e politico conquistato dalle donne e dagli altri soggetti storicamente associati al non essere maschi, risponde il patriarcato in crisi, rispondono, cioè, i maschi che quel potere non vogliono perdere. E lo fanno con molteplici mezzi, tra i quali rientrano anche le violenze, fino al femminicidio, cioè all’uccisione di una donna in quanto tale, proprio perché donna e, quindi, oggetto del potere maschile da ricondurre al pieno controllo.
L’antropologa Rita Segato da anni ci spiega che l’esercizio della violenza, e delle altre forme di dominazione maschile, fa parte del mandato di mascolinità, dell’educazione che i maschi trasmettono tra sé e alla quale invitano tutti gli altri a aderire. I maschi che non si adeguano a questo mandato esercitano una devianza: trasgrediscono all’ordine; rompono con questo esercizio di potere. Tuttavia, non è facile farlo. Non si pensi solo alla violenza più forte, efferata, visibile. Si pensi alle forme quotidiane e banali in cui questo mandato si esprime: ad esempio, alla sottrazione alle battute sessiste in palestra o al bar; oppure, all’affermazione pubblica della propria partecipazione ai lavori domestici; o, ancora, al prendere parola di fronte a discorsi che esaltano la virilità o denigrano l’omosessualità. Quanti maschi hanno – abbiamo – il coraggio di operare questa rottura senza sentirsi fuori luogo, se non, addirittura, messi in disparte, diminuiti? E si pensi a quanto questo mandato spinge al conformismo tra gli adolescenti e i giovani, tra i quali esso continua ancora a essere alimentato.
Il patriarcato, con il suo mandato di dominio, è anche questo. La sua critica è un campo di lotta delle donne – le persone che ne subiscono gli effetti più tremendi, fino a morire o a essere stuprate per mano di maschi – ma interessa anche i maschi stessi, quelli che affermano di non volere la violenza contro le donne. E qui si pone una domanda fondamentale: cosa fa questa parte del mondo maschile – cosa facciamo? Come e quando prende parola per dire quanto affermato più volte dalla stessa Rita Segato, ossia che “la potenza agita attraverso la violenza è un atto di debolezza”? Ovviamente, non sono le donne né è il movimento femminista e transfemminista a doversi assumere questo onore.
Il carico è, in questo senso, tutto maschile, deve attraversare questa parte della società, aprendo, finalmente, spazi ampi – non minoritari – di discussione, in cui criticare a viso aperto il mandato di mascolinità violenta di cui i maschi continuano – continuiamo – a essere portatori, riconoscendo anche in questa parte di popolazione che il potere patriarcale avvelena anche noi – sebbene uccida le donne – e da questo veleno bisogna liberarsi, anche attraverso pratiche collettive, mediante una sua politicizzazione anche tra i maschi. Siamo pronti per farlo? Per riconoscere il carattere politico – di potere – dei rapporti di violenza contro le donne? E che la messa in discussione di questi rapporti richiede una messa in discussione ancora più profonda di quanto è accaduto fino a oggi delle relazioni di potere tra i generi nelle nostre società?