«Io mi levo la mattina con il sole e me ne vo in un mio bosco che io fo tagliare, dove sto due ore a rivedere l’opere del giorno passato, e a passar tempo con quei tagliatori, che hanno sempre qualche sciagura alle mani o fra loro o co’ vicini. (…) Partitomi del bosco, io me ne vo a una fonte, e di quivi in un mio uccellare. Ho un libro sotto, o Dante o Petrarca, o uno di questi poeti minori, come Tibullo, Ovidio e simili: leggo quelle loro amorose passioni e quei loro amori, mi ricordo delle mia e godo un pezzo in questo pensiero. Mi trasferisco poi in su la strada nell’hosteria, parlo con quelli che passano, domando delle nuove de’ paesi loro, intendo varie cose, e noto varii gusti et diverse fantasie d’uomini. Viene in questo mentre l’ora del desinare, dove con la mia brigata mi mangio dei cibi che questa povera villa e paululo patrimonio comporta. Mangiato che ho, ritorno nell’hosteria: quivi è l’hoste, per l’ordinario, un beccaio, un mugnaio, due fornaciai. Con questi io m’ingaglioffo per tutto il dì giuocando a cricca, a trich-trach, e poi dove nascono mille contese e infiniti dispetti di parole ingiuriose; e il più delle volte si combatte un quattrino, e siamo sentiti non di manco gridare da San Casciano. Così, rinvolto in tra questi pidocchi, traggo il cervello di muffa, e sfogo questa malignità di questa mia sorte, essendo contento mi calpesti per questa via, per vedere se la se ne vergognassi.
Venuta la sera, mi ritorno a casa ed entro nel mio scrittoio; e in sull’uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali; e rivestito condecentemente, entro nelle antique corti degli antiqui uomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio e ch’io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandarli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro umanità mi rispondono; e non sento per quattro ore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi trasferisco in loro. E perché Dante dice che non fa scienza sanza lo ritenere lo avere inteso, io ho notato quello di che per la loro conversatione ho fatto capitale, e composto uno opusculo “De principatibus”, dove io mi profondo quanto posso nelle cogitationi di questo subbietto, disputando che cosa è principato, di quali specie sono, come si acquisiscono, come si mantengono, perché si perdono. E se vi piacque mai alcuno mio ghiribizo, questo non vi dovrebbe dispiacere; e a un principe, e maxime a un principe nuovo, dovrebbe essere accetto; però io lo indirizzo alla Magnificenza di Giuliano. (…) e per questa cosa, quando fosse letta, si vedrebbe che quindici anni che io sono stato a studio all’arte dello stato, non li ho né dormiti né giuocati; e dovrebbe ciascheduno aver caro servirsi d’uno che a spese d’altri fosse pieno di esperienza. E della fede mia non si dovrebbe dubitare, perché, avendo sempre observato la fede, io non debbo imparare ora a romperla; e chi è stato fedele e buono 43 anni, che io ho, non debbe potere mutare natura; e della fede e della bontà mia ne è testimonio la povertà mia».
[Niccolò Machiavelli, Lettera a Francesco Vettori, 10 dicembre 1513]