La Grande Lucania non è una identità geopolitica di oggi, si è costituita tanto tempo fa sulla base di un sistema sociale fondato sulla democrazia, l’arte, il costume e l’economia.
Essa si estendeva dalla Porta Rosa di Ascea fino alle Tavole Palatine di Metaponto, dal Promontorio di Capo Palinuro fino alla foce del Basento sullo Ionio.
La rappresentazione cartografica della Grande Lucania più antica si trova nella Tabula Peutingeriana che risulta essere la sola carta geografica che ci permette la conoscenza della regione in età classica.
Con il nome di Tabula Peutingeriana viene oggi indicata la copia medioevale di una carta dell’età romana che descrive tutto il mondo conosciuto dagli antichi e che, attualmente, è conservata nella Biblioteca Nazionale di Vienna.
La Grande Lucania occupava una vasta area, per larga parte pianeggiante ed assolata e, nell’interno, increspate dai massicci nevosi, ampie zone dell’Appennino Meridionale da cui si scorgevano, anche oggi, le bellezze del Golfo di Policastro ed i caldi tramonti del Golfo di Taranto.
Una comunità unita ed ospitale, questa era, autentica testimone della grande storia. Ricordiamo che gli Enotri, antichi abitanti della Lucania, accolsero sui lidi di Ascea Focei, una popolazione errante, padrona con le sue pentacontere dei mari incogniti, respinta ovunque andasse, per costruire insieme nel 540 a.C. la città di Velia, patria di Parmenide e Zenone.
In quel tempo, Velia (Ascea) raggiunse una tale floridezza, e culturale, cosi consistente da oscurare sia la padronanza della città di Sibari nel golfo di Taranto che il predominio di Poseidonia (Paestum) nel mar Tirreno.
Un grande parco del pensiero, cosi potrebbe intendersi la antica Lucania, che ebbe vita e sostanza nella Magna Grecia con la scuola pitagorica di Heraclea e la scuola eleatica di Velia: due facce di quella medaglia che è la storia della civiltà mediterranea, la cui linfa del sapere deriva da quel mondo antico.
Era una comunità unita e ospitale protagonista e testimone di una grande storia civile e politica
Accanto a questa scuola del pensiero che fu detta “eleatica” sorse una scuola medica la cui fama varcò gli stessi confini del territorio tanto che Plutarco ci narra che navigo verso Elea d’Italia (esisteva altra Elea in Medio Oriente) per trattenervisi e riacquistare la sua salute.
Per secoli in quelle terre ci fu pace e sviluppo, poi, le cose cambiarono nel tempo, come mutarono destini degli uomini e gli assetti territoriali delle istituzioni locali, ignari del loro avvenire.
Tutta la Lucania storica, sotto Romani all’inizio del III secolo, diventò, secondo le letture di Strabone e Plinio, la III Regio augustea: comprendeva la Lucania, il Cilento e la Calabria. Successivamente, con l’avvento dei Longobardi di Benevento nel 750, l’antica Lucania, senza la Calabria, formò il castaldato di Lucania. In seguito, con lo smembramento del ducato beneventano dei Longobardi, il Cilento fu donato al Sanseverino e passò col principato di Salerno, dividendosi così dalla restante parte della Lucania antica, la quale passò sotto il dominio bizantino. La Grande Lucania fu dissolta nel territorio e nel toponimo: il Cilento rimase nel tempo con Salerno, mentre la parte orientale della regione lucana con i Bizantini assunse il toponimo di Basilicata, che si sovrappose definitivamente all’antico nome di Lucania. I Normanni, Federico II, gli Angioini, gli Aragonesi, in epoche successive, continuarono a tenere divisa la Lucania in Basilicata e in Principato di Salerno, ma non le sue tradizioni, la cultura, il fattore linguistico-dialettale, le sue soffocate aspirazioni.
Fu un errore stravolgere i confini dell’area
che chiede da tempo una ricomposizione
Avvicinandoci ai nostri tempi, la Politica, precisamente nel 1806, modificando il corso della storia, pensò di riorganizzare l’assetto amministrativo dei territori interni della Basilicata. L’artefice dell’operazione fu Giuseppe Bonaparte che, con un editto, divise in tre Province il territorio, elevando la città di Potenza a capitale. I francesi occuparono il Regno delle due Sicilie – come affermerà Napoleone nel suo proclama all’armata stanziatasi a Napoli – per punire il tradimento del Borbone, venuto meno al patto di alleanza stipulato con la Francia e introdussero alcune riforme giustificandole come strumenti di governo idonei per garantire alle popolazioni meridionali la pace interna e l’ordine sociale. Lo esprimerà bene uno dei più sagaci collaboratori di Re Giuseppe, André Francois Miot, ministro dell’interno, affermando in un sue Rapporto sullo stato del Regno, del 1808, che “molte cose sono state fatte, nulla tuttavia si è eseguito con una dannosa precipitazione (ma) tutto è stato accompagnato da una saggia lentezza”.
Tuttavia è stato vano stravolgere, nei secoli, alla luce di quello che stiamo verificando, perimetri dell’antica Lucania per indebolire l’identità delle sue popolazioni. La Politica, infatti, non ha saputo interpretare la storia millenaria di un popolo dalla forte tempra, che ha saputo conservare nel proprio DNA geni di una personalità marcata che, periodicamente manifestandosi, riaccende la fiaccola della speranza per ritornare sulla questione di sempre: la ricomposizione della Grande Lucania
Le popolazioni del Cilento e del Diano
pronte ormai al salto dell’unificazione
Ieri, ma soprattutto oggi, sono anche le politiche del Governo campano, così come sono rappresentate, a far scattare nel cuore del Cilento e del Vallo di Diano quel visibile e reciproco desiderio di stare insieme, di unirsi alla Basilicata. Una specie di bisogno che si riscontra in ogni angolo della società civile, soprattutto negli ambienti produttivi e culturali più liberi.
Le ragioni sono le seguenti:
- La diversità socio-culturale del Cilento da Napoli e dalla sua provincia. Basti solo elencare alcune peculiarità del Napoletano: l’agricoltura di tipo estensivo, l’impatto ambientale della mobilità di persone e merci; la rilocalizzazione e riconversione di attività produttive mature; la ristrutturazione del sistema portuale e dei servizi mercantili, l’antropizzazione
dell’area vesuviana e della città di Napoli, la presenza di illegalità organizzata e diffusa in vaste aree e in vari settori economici, la precarietà geologica dell’area flegrea, la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti.
- La disattenzione dell’Amministrazione provinciale di Salerno, impegnata a rendere compatibile il suo capoluogo con progetti di viabilità e sistemazione produttiva che interessano la confinante area metropolitana napoletana ed il sistema portuale, per non parlare della considerazione che deve riservare alla promozione e salvaguardia della costiera amalfitana, che presenta caratteristiche paesaggistiche e di sviluppo diverse dal Cilento.
Si comprende facilmente come l’impegno delle Istituzioni campane sia, prioritariamente, indirizzato alla risoluzione di tutti questi problemi.
Allora la motivazione di fondo di questa storica querelle, che si riaffaccia a fasi alterne, dipende si dal fatto che i poteri centrali, Napoli con il suo “napolicentrismo” e Salerno, siano lontani dal basso Cilento o dal Vallo di Diano, come giustamente è stato accennato, in verità, nelle rimostranze delle popolazioni “lucane” c’è il richiamo di una fede, di una diversità culturale, di una volontà forte di autotutelarsi, che spinge naturalmente verso chi è simile, uguale e condivide con te, nel territorio, un percorso comune fatto di sentimenti e di rivincite sociali.
A sostegno di questa tesi, non a caso, c’è la storia. La storia che conta, quella che seriamente rivaluta e rilegge le vicende degli uomini per collocarle, al di là di quello che accade nelle loro esperienze personali e collettive, nel contesto sociale giusto, perché più appropriato rispetto alle loro origini e differenti tradizioni.