Per scrivere una riflessione su “A te vicino così dolce” – romanzo d’esordio di Serena Bortone, sperando sia il primo di una lunga serie – ci è voluta qualche settimana. Le storie di Serena, Vittoria e Paolo hanno continuato ad esistere nella mia mente oltre l’ultima pagina del libro, oltre la fine, oltre le estati e gli inverni raccontati dall’autrice. Il senso di inadeguatezza di Serena, le sue insicurezze, sono diventate anche le mie. Le scelte di Vittoria così coraggiose, dure, inaspettate mi sono parse più comprensibili con i giorni. Il bisogno di Paolo di “avere tutto” – amore e sesso, lecito e illecito – mi è sembrata una necessità del tutto ragionevole. E il racconto di una generazione – quella dei protagonisti e degli anni 80 – si è trasformato in una narrazione condivisa di un tempo veloce, ristretto, angusto in cui gli incontri con le persone che – come diceva Michela Murgia – diventano testimoni di “quando potevi ancora essere tutto” sono salvifici e potentissimi. Essere giovani, sentirsi eterni e costantemente dalla parte della ragione non può che essere una parte fondamentale e necessaria della vita di ognuno. Il senso della ricerca esistenziale parte da lì ed è così inconsapevole, leggero, inintenzionale da incastrarsi perfettamente nella quotidianità. È da quelle certezze – che sono allo stesso tempo profondo vacillamento dell’anima e del corpo – che si costruisce la propria identità come marmorea testimonianza di ciò che siamo e che saremo.
Attraverso una scrittura pulita, senza sbavature, dalle traiettorie logiche ma allo stesso tempo originali, senza alcun tipo di opacità linguistica né concettuale, le pagine scritte dalla Bortone conquistano perché portano con sé quella irresistibile genuinità che caratterizza anche l’autrice. Conduttrice televisiva, giornalista, autrice. La Serena del romanzo, all’improvviso, sa prendere posizione: scende dall’auto, torna indietro, da sola. Sembra proprio che la Serena, personaggio pubblico, di qualche mese fa che prende, coraggiosamente, posizione in diretta TV contro la censura ad Antonio Scurati, affondi le sue radici proprio in quel punto di vita vissuta o raccontata, lì c’è la sua genesi. Scende dall’auto, torna indietro, da sola. Ancora una volta.
La storia, talmente vera che si fa fatica ad intercettare gli elementi di fantasia tra quelli reali, dopo un incipit potentissimo, prosegue attraverso un ritmo lento. Le due narrazioni – la storia di Serena e Vittoria e quella di Paola – procedono in autonomia, finché le vite dei tre personaggi si intrecciano in modo così profondo da riuscire a rintracciare un quarto piano del racconto: la storia che si dispiega tra i pensieri della protagonista, Serena, che pensa il contrario di quello che fa, deduce l’impensabile e risale le trame di ciò che sta accadendo attorno a lei in modo lucido e onesto, magnanimo e logico, capace di accettarne le più numerose sfumature. Ammettere le sfumature è una consapevolezza che fa parte di quella “vita bugiarda degli adulti” raccontata da Elena Ferrante e riservata agli animi giovani più sensibili.
Un racconto che è fatto di immagini nitide, vivide, dure ma anche dolci, intense, eterne.
La prima immagine, quella di Serena che tenta il suicidio a quindici anni, è la frenesia dell’essere giovani e sentirsi incompresi – “trasparenti” – non temere nulla di ciò che può accadere o che ci si può procurare, con il solo ed unico obiettivo di comprenderci e farci comprendere.
L’ultima immagine, l’incontro dopo anni tra Vittoria e Serena, è ciò che rimane di un tempo precario quanto magmatico come la giovinezza.
Un dirsi tutto e non riuscire più a comprendersi.
Serena Bortone, “A te vicino così dolce”, Rizzoli