La Giaveri penetra nel Seicento e fa incontrare Dumas e Manzoni

L'autrice fa interagire, sul palcoscenico della sua rappresentazione, D’Artagnan, Athos, Portos e Aramis, con don Abbondio e Fra’ Cristoforo, con Renzo e Lucia, con l’innominato e la monaca di Monza. Nel romanzo non manca un riferimento a Napoli (città d’adozione della scrittrice che lì ha cominciato la sua carriera universitaria insegnando Letterature comparate all’Orientale)

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La copertina del romanzo della Giaveri

Maria Teresa Giaveri, Quel ramo del lago di Como, Milano, Neri Pozza, 2023, pp. 126.

In una delle scene più conosciute de Il mondo dei robot – film cult di fantascienza, per la regia di Michael Crichton, ambientato in un immaginario parco a tema dove figuranti meccanici vivevano in epoche storiche diverse – un pistolero androide (Yul Brynner) insegue a cavallo due visitatori umani, attraversando un villaggio del Far West, una dimora del Medioevo, per giungere infine nel giardino di una villa dell’antica Roma. Una cavalcata ‘spazio-temporale’ dall’effetto altrettanto sorprendente – che alla stessa maniera collega mondi diversi – la racconta al lettore Maria Teresa Giaveri nel suo ultimo romanzo, Quel ramo del lago di Como. È il 7 novembre del 1628 e, percorrendo una stradina in mezzo alla campagna lombarda, il curato di quelle terre trova il suo cammino sbarrato da due brutti ceffi; due “bravi” che lo aspettano per chiedergli conto di un matrimonio da celebrare – o meglio “che non s’ha da fare” – il giorno successivo. “Fu in quel momento che si udì un rumore di cavalcata. Don Abbondio si interruppe, i bravi si guardarono intorno: non appariva ancora nessuno, ma il rumore si faceva più netto. E d’un tratto, eccoli uno due cavalieri lungo il sentiero che saliva dalla valle. Eccoli fuori dal folto d’alberi che mascherava la curva, uno due tre quattro quanti erano? Si fermarono a una certa distanza, poi mentre il primo avanzava verso il curato, si videro gli altri seguirlo con mule cariche di bagagli”. L’abbigliamento, la parlata francese e i nomi dei quattro cavalieri non lasciano dubbi: si tratta dei moschettieri più famosi della letteratura francese che – dal libro-saga di Alexandre Dumas – finiscono nel romanzo più importante dell’Ottocento italiano: I promessi sposi di Alessandro Manzoni. Anzi sarebbe più corretto dire che Dumas e Manzoni – insieme con i protagonisti dei due loro libri più conosciuti – s’incontrano nelle pagine della storia immaginata da Maria Giaveri e, da quel momento, comincia a prendere forma il nuovo racconto. Del resto, è proprio lo scrittore francese che – da personaggio nella vicenda narrata da Giaveri – rileva il nesso e la possibile funzione di ‘sequel’ del romanzo italiano: “La storia si svolge nel Seicento. Anzi, cosa che dapprima mi è parsa incredibile: si svolge proprio negli stessi tempi dei miei Moschettieri. Ne sembra l’opposto, ma cronologicamente potrebbe esserne la continuazione”. La trama ordita dalla Giaveri funziona perfettamente nella misura di sintesi di romanzo storico e fiction, sostanzialmente in linea con l’impostazione di genere già scelta per i suoi due libri precedenti: Lady Montagu e il dragomanno (che potrebbe essere letto nella misura di una biografia romanzata su di una base rigorosamente storica); e Nei mari di Ulisse (ancora un romanzo dall’impianto storico dove però diventa più marcata la componente ‘finzionale’ della narrazione). Il ‘vero’ storico (e quello letterario, se si pensa alle puntuali citazioni di fatti, opere e personaggi) continua ad essere lo scenario privilegiato dall’autrice – che ha insegnato Letterature comparate in Italia e all’estero, è Accademica delle Scienze di Torino e vicepresidente del Pen Club Italia – che però fa incontrare e interagire, sul palcoscenico della sua rappresentazione, D’Artagnan, Athos, Portos e Aramis, con don Abbondio e Fra’ Cristoforo, con Renzo e Lucia, con l’innominato e la monaca di Monza (quest’ultima coppia è, forse, la meglio assortita e la più originale nelle pagine della Giaveri). Dagli ‘originali’ francesi e italiani si tendono i fili della trama: Una missione segreta affidata ai moschettieri francesi, un rapimento sbagliato, una inattesa storia d’amore, la scoperta casuale di un ‘codice’ che, nelle mani sbagliate, avrebbe potuto cambiare il corso della storia. In parallelo, ma su un diverso piano cronologico, si rappresenta Parigi ai tempi di Dumas: con i suoi artisti e scrittori più celebri (da Hugo a Delacroix); con le splendide feste in costume dove “si parla italiano”; con gli editori parigini che vendono nelle loro botteghe il libro di “un gentiluomo milanese” scritto nella “lingua di Dante”. Non manca, infine, in questo terzo romanzo di Maria Teresa Giaveri – come d’altronde sempre accaduto nei volumi precedenti – un riferimento a Napoli (città d’adozione della scrittrice che lì ha cominciato la sua carriera universitaria insegnando Letterature comparate all’Orientale). L’omaggio è camuffato nelle parole di Pierangelo Fiorentino, il fidato collaboratore di Dumas al quale si doveva la fortuna dell’opera dell’autore francese in lingua italiana, con un particolare in riferimento alla traduzione di Ugo Foscolo: “Un motivo esce dal Conservatorio di San Pietro a Majella e diventa una canzone; un motivetto gira per le strade di Napoli e te lo ritrovi come aria in un’opera. Probabilmente han preso una musica italiana e hanno aggiunto parole francesi. Un po’ come hanno fatto con la Carmagnola…”.

 

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