È stato un Natale di strage e sofferenza. Le notizie dalla Palestina parlano di oltre cento morti nell’ennesimo attacco dell’esercito israeliano. Dal Sudan giungono informazioni agghiaccianti, con la pratica dello stupro al centro delle strategie militari. Nel frattempo, l’Ucraina continua a essere un terreno di scontro bellico. Questi sono solo i tre principali contesti di guerra del momento, che si affiancano a tanti altri lontani dalle cronache: tutti accomunati dall’assenza di un’alternativa che non sia la continua a oltranza delle morti, distruzioni e devastazioni.
Il mondo è evidentemente diviso in una molteplicità di linee di frattura, all’interno delle quali ci sono delle isole apparentemente felici come quella rappresentata da un’ampia parte del continente europeo, che non riesce, però, a proporsi come una prospettiva per il resto del mondo a causa della subalternità delle sue classi politiche e dirigenti. Le popolazioni europee restano, a parte alcune minoranze, all’interno di una condizione di sospensione, cercando, con sempre più difficoltà, di mantenere un senso collettivo attraverso la ripetizione dei riti del consumo mediati dalla tradizione religiosa: un senso sempre più tenue, sempre più debole in un mondo eccessivamente attraversato dalla violenza come condizione normalizzata.
Questo Natale ha presentato in maniera molto chiara questa frattura fondamentale tra una parte dell’umanità che vive il proprio presente e immediato futuro senza alternative alla guerra e alla sofferenza, e un’altra parte di umanità che festeggia un Natale i cui significati sono sempre più difficili da afferrare. Lo stesso tema della nascita, della nuova vita, dunque dell’apertura al mondo e agli altri, è sempre meno capace di costituirsi come riferimento collettivo, dunque come valore riconoscibile.
È evidente anche in questo Natale la crisi antropologica in corso, che si accompagna a una crisi politica profondissima, in assenza di un’alternativa a queste fratture, destinate ad approfondirsi, ampliando le distanze nella condizione umana tra chi cerca di difendere una prospettiva di serenità nonostante tutto – anche chiudendosi del tutto agli altri – e quanti, invece, questa prospettiva non riescono neanche a immaginarla, risucchiati da rapporti sociali attraversati dalla permanente minaccia militare, dunque dalla morte – e dalla mera sopravvivenza – come unico orizzonte possibile.
È una crisi che chi vive all’interno delle aree di maggiore serenità dovrebbe riconoscere, spingendo sulle proprie classi dirigenti, quindi in particolare quelle europee, affinché si propongano come un’alternativa di pace in questo contesto di guerra. Purtroppo, allo stato attuale è proprio questa parola a mancare nella proposta politica: pace. Non la nomina nessuno tra i politici europei, è uscita dal campo politico. Confermando la crisi antropologica e di senso della nostra parte di mondo, interna a un’illusione pericolosa: quella di salvarsi mentre tutto intorno è la violenza della guerra a imporsi.