La cultura digitale ci dà la possibilità di accantonare giganteschi depositi di informazioni e di interrogarli velocemente in base alle necessità. La conseguenza è che ci sforziamo sempre meno di memorizzare le cose perché abbiamo tutto a disposizione sui nostri dispositivi tecnologici. La facilità nell’accedere alle informazioni on line pare incida sulla memoria, riducendola, in modo analogo a quello che avviene nei bambini dotati di calcolatori per far di conto, i quali svilupperebbero difficoltà anche nell’eseguire le più semplici operazioni aritmetiche, tanto da evidenziare problemi di discalculia. Si sviluppa, insomma, la tendenza a ricordare dove recuperare i fatti anziché i fatti stessi. I dispositivi portatili sono diventati il prolungamento della mente umana: sono unità di memoria ausiliarie: l’individuo può non ricordare le cose; deve solo sapere dove trovarle al momento opportuno.
La Rete diventa un cervello furibondo
Non ricordiamo le cose ma dove trovarle
La Rete appare come un “cervello furibondo” che si appropria del ruolo che un tempo apparteneva alla memoria interiore: non ricordo le cose ma posso trovare istantaneamente ciò che cerco on line. L’uso del web rende sicuramente più difficile fissare i ricordi nella memoria biologica, con una conseguente necessità di affidarci alla memoria artificiale della Rete. Un fatto che, assieme ad altri, potrebbe far apparire il nostro pensiero più superficiale.
Concentrazione che cala dopo poche pagine, l’immersione profonda nella lettura prima era una capacità naturale e oggi appare quasi impossibile: la Rete sembra aver mandato in frantumi la capacità di concentrazione e di contemplazione. I media oramai non sono più semplici canali per le informazioni; forniscono materia al pensiero e modellano anche il processo del pensare.
Diversi studi sostengono che le nuove tecnologie creino una generazione facilmente distratta e con bassi livelli di attenzione. Si instaura una tendenza a usare vari dispositivi secondo modalità multitasking, svolgendo tutte le attività in maniera poco approfondita e senza molta capacità di concentrazione. Un fatto che potrebbe indurre un deficit di attenzione. Altri studi, invece, mostrano come la maggiore capacità multisensoriale sia comune tra coloro che sono abituati al multitasking mediatico.
Nel 2008 Gary Small, docente di Psichiatria all’ucLA, direttore del Memory and Aging Center condusse un esperimento per mostrare il cambiamento del cervello in risposta all’uso di internet. Furono reclutati 24 volontari e i loro cervelli furono sottoposti a scansione mentre facevano ricerche su Google. Le scansioni rilevarono che l’attività cerebrale degli esperti di Google e della Rete in genere era molto più estesa di quella dei principianti. In particolare, i pratici nell’uso del computer utilizzavano un circuito specifico nella regione del lobo frontale sinistro del cervello, mentre i novizi mostravano un’attività minima se non addirittura nulla. Non si rilevò, invece, alcuna differenza nell’attività di lettura di un testo lineare. I novizi furono lasciati a fare ricerche sul web e dopo sei giorni le scansioni rilevarono che quella parte della corteccia cerebrale, prima quasi completamente inattiva, mostrava una significativa attività. In sintesi, cinque giorni di pratica erano bastati a mettere in moto gli stessi circuiti degli utenti esperti. Di qui la domanda: se il cervello è così sensibile all’esposizione al computer, cosa accade quando passiamo più tempo on line? Diversi studi di neuroimaging1 evidenziano modificazioni della sostanza grigia corticale in soggetti cronicamente esposti a internet.
Siamo sempre più abituati a fare browsing
Cambia la modalità principale di lettura
Navigare richiede una forma di multitasking mentale particolarmente intenso. Fare browsing, scorrere in maniera superficiale, pare essere diventata la modalità principale di lettura. C’è un’inversione di tendenza del percorso iniziale della civiltà: da coltivatori di conoscenza personale ci stiamo evolvendo in cacciatori e raccoglitori nella foresta elettronica dei dati.
Ma i giovani di oggi sono più stupidi? Non è detto. Alcuni studiosi, tra cui Carr, evidenziano quanto oggi siamo intelligenti in maniera diversa. Siamo, per esempio, più abili nel risolvere i problemi delle sezioni più astratte e visive dei test di QI, mentre facciamo progressi lievi o inesistenti nell’ampliare la conoscenza personale, consolidare le conoscenze universitarie di base o migliorare la nostra capacità di comunicare chiaramente idee complicate.
Quando non riceviamo notifiche
ci sentiamo abbandonati e isolati
La Rete cattura l’attenzione e la disperde. Ci concentriamo sullo schermo ma siamo spesso distratti dall’arrivo di messaggi e stimoli contrastanti. Ciò può mandare in cortocircuito il pensiero cosciente e quello inconscio, impedendoci di approfondire o di essere creativi, col rischio che il nostro cervello possa diventare una semplice unità di elaborazione dei segnali. La necessità di valutare link e di scegliere come navigare on line richiede una coordinazione mentale continua oltre a una notevole capacità decisionale che può distrarre il cervello dal lavoro di interpretazione del testo o di altre informazioni. Il cervello diventa sovraffaticato mentre non si creano quelle connessioni mentali che si formano quando approfondiamo o leggiamo un testo senza distrazioni.
Oltre ai messaggi personali – pensiamo alle mail, ai messaggi privati e sms – la Rete ci offre un crescente numero di notifiche automatiche di ogni genere che interrompono di continuo le nostre attività. Arriviamo al paradosso per cui vogliamo essere interrotti in quanto ogni interruzione ci porta una informazione preziosa. Dire stop alle notifiche genera la sensazione di isolamento, dell’essere tagliati fuori. Quando siamo on line, il nostro cervello si mostra più svelto nelle attività multitasking ma meno capace di pensare in maniera creativa e approfondita.
Lo psichiatra tedesco Spitzer parla di demenza digitale riferendosi al restringimento del volume dell’ippocampo osservato nei pazienti dipendenti patologici da internet, osservabile nel decadimento delle loro funzioni cognitive e nell’appiattimento emotivo. Una ricerca a firma di Joseph Firth, John Torous e diversi autori australiani, europei e americani sul cosiddetto online brain pubblicata nel 2019 sulla rivista World Psychiatry, studia come crescere e vivere nel mondo on line possa influenzare la capacità di attenzione, i processi di memoria e le relazioni sociali. Si suggerisce un parallelo tra le modificazioni indotte sull’attività elettrica del cervello o sulla soggettività dell’apprendimento di una seconda lingua nei primi anni di scuola, riscontrate con metodi di neuroimaging, e l’apprendimento dell’uso del computer. La plasticità neurale che permette delle modificazioni si mostra più accentuata nell’infanzia e maggiormente problematica in età adulta. In sintesi, per i nativi digitali si sviluppa la stessa situazione che riguarda il bilinguismo: la facilità di apprendimento è difficile da eguagliare in età avanzata.
La presenza sul web riduce il rischio di malattie
e stimola il cervello degli anziani
A proposito di differenze di età: ci sono diversi studi (tra cui uno pubblicato sul Journal of the American Geriatrics Society) che hanno scientificamente dimostrato che stare sul web per un tempo ragionevole stimola il cervello degli anziani, riducendo il rischio di patologie neurodegenerative. Secondo i ricercatori, le persone anziane che usano regolarmente internet hanno quasi la metà delle probabilità di sviluppare demenza rispetto a coloro che non lo usano.
La scarica di dopamina che arriva dai like
è simile al meccanismo delle slot machine
Ogni volta che otteniamo un like, un commento o qualsiasi notifica sui social riceviamo una piccola gratificazione che a livello fisico è una scarica di dopamina e che sta alla base della nostra dipendenza dai social network e dagli smartphone. Come? Il meccanismo che regola questo sistema è mutuato dal gioco d’azzardo e dalle slot machine e si chiama sistema di rinforzo intermittente positivo. Uno dei primi a illustrare questo meccanismo è stato Tristan Harris, ex software designer di Google e fondatore del Center for Human Technlology, in un saggio pubblicato nel 20161. Il meccanismo è semplice, e molto simile a quello delle slot machine: pubblichiamo un contenuto sui social e aspettiamo di ricevere like o commenti che scatenano il rilascio di dopamina e che ci tengono attaccati allo smartphone e all’arrivo delle notifiche. Se sono attive le notifiche, la dopamina arriva nel momento in cui il nostro dispositivo suona o si illumina, stimolandoci a guardare chi ha messo like o commentato; se non abbiamo attive le notifiche, saremo spronati a controllare nevroticamente lo smartphone nella speranza di intravedere una notifica e avviare il rilascio di dopamina.
Facebook basa la sua fortuna
sull’economia dell’attenzione
Di qui la conclusione: i social sfruttano la capacità del nostro cervello di generare scariche di piacere per farci passare quanto più tempo possibile sulle loro piattaforme (si definisce economia dell’attenzione). Per quanto l’opera della dopamina fosse abbastanza chiara anche nelle email, nessuno strumento ha sfruttato più efficacemente i meccanismi del nostro cervello del tasto mi piace, introdotto da Facebook nel 2009. Sean Parker, fondatore di Napster e tra i promotori del social di Zuckerberg non ha mancato di chiarire che il meccanismo «è esattamente il genere di cose a cui penserebbe un hacker come me, perché si sfrutta una fragilità della psicologia umana. Penso che noi, inventori e creatori, l’abbiamo capito consapevolmente».
Luogo di riparo quando siamo a disagio
il ritratto distopico dei social media
L’argomento, particolarmente dibattuto e controverso, è finito al centro delle discussioni e delle divisioni tra apocalittici e integrati quando Netflix ha lanciato il documentario The Social Dilemma, che costituisce un ritratto distopico dei social. Secondo quanto emerge dal documentario, i social portano assuefazione e sono creati sulla base di un modello di estrazione dell’attenzione che ha un intento manipolatorio: controllare il nostro comportamento, farci continuare a scrollare le homepage e invogliarci a essere always on. I social sarebbero, in sintesi, una sorta di succhiotto digitale, una strategia di risposta disadattiva a cui ricorriamo ogni volta che ci sentiamo soli, tristi o a disagio.
In linea generale, la capacità della tecnologia di modificare le nostre abitudini viene definita brain hacking. Per catturare l’attenzione degli utenti, i programmi sono creati facendo ricorso alle conoscenze scientifiche della psicologia umana: è il caso delle emozioni di base, come la necessità di essere apprezzati dagli altri, il timore di essere tagliati fuori dal gruppo, la paura di perdere informazioni importanti; sono tutte emozioni che vengono usate per modellare i comportamenti degli utenti del web e per catturare la loro attenzione. Ma, come sempre, quando parliamo di media, gli studi si dividono: da un lato c’è chi esalta gli aspetti negativi e dall’altro chi esalta il ruolo positivo. C’è addirittura chi ha raccolto prove a sostegno dell’idea che i social possano migliorare la salute mentale, riducendo il rischio di isolamento, favorendo la socializzazione e migliorando l’autostima.
(2-continua)