La pubblicazione da parte della redazione di “Resistenze Quotidiane” del testo integrale di Antonio Scurati avente come oggetto l’anniversario del “25 Aprile” offre lo spunto per una serie di riflessioni a partire dal modo con cui se ne è impadronita la stampa nazionale e la concomitante ripresa del “caso” dal versante politico. Fino alla “costruzione di un finto caso politico”, la cui rilevanza si gioca sui diversi piani dell’etica, della politica e della commedia. Riferirsi alla “finzione”, e quindi alla commedia, è del tutto pertinente come via di accesso ai fatti nell’epoca della “società dello spettacolo” o del cosiddetto “entraitenement”. Tanto più in questo caso: poiché è di uno scrittore che si tratta, che ha acquisito una certa notorietà alcuni anni fa con la pubblicazione di un saggio su Mussolini, “lavoro” che nulla ha aggiunto o rinnovato che non sia già depositato nella sterminata storiografia disponibile.
Quanto al “monologo di Scurati”, non recitato in RAI ma diversamente pubblicizzato (dalla stessa Meloni e da un po’ tutti i canali televisivi.. ), va registrato che esso ha trovato ampia risonanza nel più maestoso e regale cortile del Teatro di Corte di Napoli all’interno della recente rassegna “La Repubblica delle idee ” dell’omonima testata. Ebbene si tratta di una riepilogazione dell’assassinio di Matteotti e del ruolo giocato dallo stesso Mussolini nei successivi misfatti del ventennio fascista, oltre alle ben note “stragi nazifasciste” dell’epoca.
Mi è capitato di assistere personalmente alla “recita di Scurati” nel magnifico cortile del palazzo reale di Napoli, dove era atteso da una folla che saturava tutto lo spazio dell’ampio cortile … Recita condotta con una sorta di postura che da un lato evocava il messaggio dell’esule al confino, cui tocca il gravoso compito di allertare le coscienze di un popolo irretito da una compagine politica tronfia e spregiudicata nel mentre palesa gli stravolgimenti di un presunto ordine democratico, dall’altro il solidificarsi di un effetto atmosferico indubbiamente molto suggestivo dove si sono combinati gli aspetti da tragedia storica imminente, insieme alla drammaticità della sua sciagurata supposta ripetizione. Degna rappresentazione di cui avrebbe potuto avvalersi lo stesso Wilhelm Reich nella sua analisi delle origini del fascismo, ma anche lo stesso Gustave Le Bon per l’ampliamento delle implicazioni sulla sua” psicologia delle folle”.
Qui, invece, “l’identificazione col capo” è sostituita da una “identificazione con l’ideale”, antifascista e democratico, cui un deficit di analisi politica corre in soccorso sotto la forma di “sermone domenicale”, buono infine come rituale commemorativo che, in quanto tale, si presta benissimo a quell’Ars Retorica di cui si avvale, con stucchevole e ipocrita padronanza, quella quota che tra i dominanti risulta dominata con funzione di intercessione per il popolo.
È evidente che siamo davanti a un grossolano cortocircuito epocale cui si assiste da un bel po’: un grave deficit di cultura e capacità di analisi politica viene sostituito da rappresentazioni che, quando non surrogatorie, risultano compensatorie fino a non corrispondere più a nulla nella coscienza sociale odierna, ormai perfettamente allineata su un “ordine tramandato e perfettamente introiettato” che giunge fino all’autocompiacimento di sé: oggi, nella forma di una messinscena barocca i cui recitanti, ricorrendo alla tipica astuzia della ragione di cui sanno avvalersi, interpretano la propria apologia e soprattutto, forse inconsapevolmente, l’esaltazione dello status quo.
A nessuno di costoro viene in mente di parlare di “neoliberismo in presenza di capitalismo”: una tale macroscopica rimozione circa il reale assetto sociopolitico e relativa ideologia è il sintomo di quanto sia profonda la faglia apertasi nel campo della cosiddetta sinistra, cui la mancanza di capacità critica e autocritica si accompagna alla totale assimilazione dell’ordine vigente, facendo dei suoi esponenti dei dissociati orientati alla sua conservazione, mediante il ricorso alla fantasmatica del pericolo fascista teso a minare un supposto ordine democratico.
Da perfetti “neo-conservatori” gli araldi del “progressismo” sono specularmente assimilabili ai “conservatori di sempre “. Il loro ricorso all’immaginario, sorta di energia fossile collettiva, è un registro che vincola narcisisticamente alla riproduzione speculare dello “stesso”, laddove è di un lavoro dell’immaginazione, quale energia rinnovabile e impregiudicata, che ci sarebbe bisogno.
Sicché, trattandosi di “intellettuali”, si assiste all’esibizione, in forma di rappresentazione pubblica, di un modesto canovaccio letterario per il quale valgono le parole di Giorgio Colli: “La letteratura, attraverso lo strumento della parola scritta, è la finzione di dire qualcosa a qualcuno che non ascolta, che non esiste. Oggi, tutto il mondo dei libri è gravato da questa menzogna. Lo scritto di un filosofo, di un intellettuale, non può contenere la verità cui pure allude: lui finge soltanto di dirla, ma nessuna voce risuona, nessun orecchio ode, nessuno sguardo riceve la vita”.