III. I poeti della civiltà contadina nel mondo
III.1. Il “seme” di Scotellaro: le traduzioni americane, Amelia Rosselli
A uno sguardo non retrospettivo, ma spostato a dopo la precoce morte di Scotellaro, si apre, invece, la vasta gamma di traduzioni, che è indice, al di là dei dati tecnici propri dell’esercizio traduttivo, non solo di affinità poetica e letteraria, ma anche di condivisione dei valori di una civiltà millenaria, come la contadina, e degli spontanei legami con la natura continuamente minacciati; presuppone, inoltre, uno scambio di idee e, particolarmente per la poesia di Scotellaro, anche di emozioni, tali da essere rivissute nella vita delle persone ovunque esse si trovino, per cui grande spazio e interesse hanno avuto le versioni in altre lingue delle sue opere. Un ruolo importante svolgono le traduzioni; la sua poesia tradotta nel mondo, in ventidue lingue, dall’albanese all’ungherese, curata da Giulia Dell’Aquila, può «dimostrare quanto lontano possa fecondare il seme di Scotellaro e la verità delle Lucanie del mondo». Tutti gli esemplari tradotti rendono una sola, emblematica poesia del 1949, La mia bella Patria (TO (EfG) 92):
Io sono un filo d’erba
un filo d’erba che trema.
E la mia Patria è dove l’erba trema.
Un alito può trapiantare
il mio seme lontano.
E che dire se, tanti decenni dopo, uno dei maggiori poeti contemporanei, Giorgio Caproni, quasi alla fine della sua vita (1989, era nato a Livorno nel 1912), sembra riprendere questi versi di Scotellaro nei Versicoli quasi ecologici, usciti in Res amissa del 1991 per cura di Giorgio Agamben presso Garzanti, poi nel 1998 nella mondadoriana L’opera in versi, curata da Luca Zuliani?
Non uccidere il mare,
la libellula, il vento.
Non soffocare il lamento
(il canto!) del lamantino.
Il galagone, il pino:
anche di questo è fatto
l’uomo. E chi per profitto vile
fulmina un pesce, un fiume,
non fatelo cavaliere
del lavoro. L’amore
finisce dove finisce l’erba
e l’acqua muore. Dove
sparendo la foresta
e l’aria verde, chi resta
sospira nel sempre più vasto
paese guasto: «Come
potrebbe tornare a essere bella,
scomparso l’uomo, la terra».
Un indubbio, immediato impulso alla conoscenza di Scotellaro venne però, fin dai primi anni, dalle traduzioni americane delle sue poesie, di cui le prime, che risalgono al 1953, con un’accurata analisi delle strategie traduttive, sono presentate in un ampio saggio di Patrizia Guida, da William Weaver a Paul Vangelisti, a Jack Hirschman, Scotellaro tra i Nobel:la fortuna precoce delle traduzioni americane, uscito nel 2016 su «Forum Italicum»; vanno anche aggiunte, a confermare l’interesse della cultura anglosassone per il poeta di Tricarico, le versioni poetiche, particolarmente attente alla musicalità dei versi per ampliarne lo stato emozionale, di Allen Prowle e Caroline Maldonado, avendo come punto di riferimento David Constantine, consapevole di aprire ai lettori anglofoni una nuova e più ampia esperienza, sentita come europea e moderna, per cui si rinvia ai Scotellaro, Poems, London 2009 e a Your call keeps us awake (“Tu non ci fai dormire”), selected poems, Middelsbrough 2013. Lo stesso Scotellaro aveva riflettuto sulla sua prassi poetica, soprattutto in alcune metapoesie, come proprio nella Lettera a don Leonardo Sinisgalli del 1949, in cui riconosce il suo tentativo giovanile di sperimentazione poetica tra novità e tradizione («Mi sono messo in giro / per provare fuori l’orizzonte / di casa mia. E vedo che siete / miei compagni», TO (MeR) 225); ma sei anni prima, nel 1943, negli ultimi versi di Il poeta, forse per suggestione dell’ipocrita lettore, suo simile, a cui si era rivolto Baudelaire, aveva scritto: «Non dico quel che penso tante volte / e penso a quel che non ho detto mai. / Sempre. / Ho scritto e forse detto una bugia / la poesia! Oh! l’arte, l’arte, l’arte, / l’arte è il poema dell’ipocrisia. / Forse più spesso che non volentieri» (TO (MeR) 160), e, nel 1945, con qualche ascendenza palazzeschiana, aveva raccomandato Ai poeti: «Questo gioco di parole cessi. / Non fate costare la carta macchiata» (TO (MeR) 169).
In effetti, una prima continuità con Scotellaro, dove sarebbe giunto il suo “alito” poetico, è stata riscontrata, com’è noto, dalla critica in alcune composizioni di Amelia Rosselli, a partire da Cantilena (poesie per Rocco Scotellaro) del 1953, ora nella mondadoriana L’opera poetica, curata nel 2012 da Stefano Giovannuzzi, al cui successivo approdo, dopo le sue sperimentazioni stilistiche sulla struttura melodica (consegnate nel 1962 ad Allegato. Spazi metrici nelle Variazioni belliche) e le forme archetipiche dei canti contadini, potrebbe avere giovato proprio il modo nuovo, la contaminazione tra popolare e colto della poesia scotellariana. Da un lato, quindi, sulla base delle ricerche etnoantropologiche rosselliane, la lucida determinazione di organizzare particelle ritmiche e serie testuali secondo precisi modelli matematico-musicali, dall’altro, l’uso di una scrittura-parlato, una specie, come da lei stessa indicato, di “grammatica dei poveri”, di riduzione della lingua della poesia a forme verbali approssimative. Come nei versi di Scotellaro, dato costante, anche a distanza, è la ripetizione, con le varie forme di anafora, anadiplosi, epifora, epanadiplosi, per indicarne alcune, un uso ossessivo di queste figure, con altri agganci iterativi accompagnati da una sorvegliata tecnica della variatio e un abbandono associativo al lapsus, si ha anche nella prima produzione poetica della Rosselli, sia nel poemetto, La libellula, del 1958 (pubblicata poi nella raccolta Serie ospedaliera del 1969), sia in questo specimen, Tutto il mondo è vedovo…, da Variazioni belliche, in cui sono raccolti testi dal 1959 al 1961, poi usciti nel 1964 presso Garzanti:
Tutto il mondo è vedovo se è vero che tu cammini ancora
tutto il mondo è vedovo se è vero! Tutto il mondo
è vero se è vero che tu cammini ancora, tutto il
mondo è vedovo se tu non muori1 Tutto il mondo
è mio se è vero che tu non sei vivo ma solo
una lanterna per i miei occhi obliqui. Cieca rimasi
dalla tua nascita e l’importanza del nuovo giorno
non è che notte per la tua distanza. Cieca sono
ché tu cammini ancora! cieca sono che tu cammini
e il mondo è vedovo e il mondo è cieco se tu cammini
ancora aggrappato ai miei occhi celestiali.
Né diversamente, nella fase più matura di Documento, uscito da Garzanti nel 1976, di maggiore controllo della materia verbale nel corso degli anni 1966-1973, utilizzando la chiave metapoetica, come già Scotellaro in Il poeta e Ai poeti, si affacciano nei versi della Rosselli dichiarazioni di sfiducia nelle parole, di sottile ironia sulla scrittura, andando verso la parabola discendente del poemetto Impromptu (1981), che segna anche la crisi della sua “maniera”, come in I fiori vengono in dono e poi si dilatano:
Mi truccai a prete della poesia
ma ero morta alla vita
le viscere che si perdono
in un tafferuglio
ne muori spazzato via dalla scienza.
I poeti negri del Terzo Mondo dalla Martinica al Senegal: Césaire, Diouf, Hughes
Il tema delle Lucanie nel mondo, del “filo d’erba”, del “seme” che l’“alito” poetico può trapiantare lontano, altrove, oltre i confini del proprio paese, diventa oggi anche quello delle Lucanie del Terzo Mondo. Se si esplora soprattutto nella produzione letteraria africana francofona o anche in quella anglofona postcoloniale, formata da scrittori provenienti dalle ex-colonie dell’impero britannico, per fermarci ad alcune delle lingue europee più diffuse, non è raro trovare affinità con l’universo poetico scotellariano. Prendendo l’abbrivo da un poeta della Martinica, come Aimé Césaire, tra i maggiori esponenti della negritudine e fondatore della letteratura neo-negra, che riflette le ansie di una civiltà in movimento, come quella africana attuale e, dunque, non più espressione della nostra cultura, in composizioni strutturate con un metissaggio antillese-francese, in una delle liriche di Ferrements del 1960, ora nelle silloge, Poesie e negritude, uscita per la Sansoni nel 1969, dedicata a Léopold Sédar Senghor, intitolata significativamente, Per salutare il terzo mondo, la visione del grande continente africano, come luogo dell’anima e terra madre, è prospettata verso un’“alba” di rinascita nell’attesa del nuovo secolo (“vedo l’Africa multipla e una / verticale nella peripezia tumultuosa / coi suoi ripari, i suoi noduli / un po’ in disparte, ma a portata / del secolo, come un cuore di riserva”):
Je vois l’Afrique multiple et une
vertical dans la tumultueuse péripétie
avec ses bourrelets, ses nodules,
un peu à part, mais à portée
du siècle, comme un coeur de réserve.
Non diversamente dal poeta di Tricarico, è come se il poeta della Martinica dicesse ai popoli diseredati dell’Africa: «È fatto giorno, siamo entrati in giuoco anche noi / con le facce e i panni che avevamo»: di qui il valore paradigmatico di questi due versi di Scotellaro, la loro potenzialità sempre attuale e universale insieme. Così, in tempi più recenti, denuncia con amarezza le condizioni della sua terra, la miseria del suo popolo una delle più brillanti poetesse del Senegal, Nafissatou Dia Diouf, nella lirica, Dessine-moi une fenêtre… (“Disegnami una finestra…”, ora in «2010. L’annuario mondiale della poesia», curato da Fausto Ciompi per I Quaderni di Soglie): «Elle n’en peut plus de Renaître / au rythme des chants et des danses / cette Afrique laissée à son sort / d’éternelle parturiente. / Désespoir d’un train râté / désespoir de rester à quai…» (“Non ne può più di Rinascere / al ritmo dei canti e delle danze / quest’Africa abbandonata al suo destino / di eterna partoriente. / Disperazione di un treno perso / disperazione di restare sul marciapiede…”). Questo aspetto tocca anche i poeti negri d’America, che si sono sempre sentiti stranieri in una nazione con città densamente urbanizzate, a cui anagraficamente appartengono, mentre il loro desiderio di potere vivere nella terra dei loro padri si identifica con l’aspirazione a ristabilire un contatto armonico con la natura, proprio come la negra, denutrita e tisica, di una delle più belle poesie di Baudelaire, Le cygne, che, dietro la muraglia infinita della nebbia, scalpiccia nel fango di una grande metropoli, Parigi, ma intanto cerca, con l’occhio smarrito, gli alberi assenti di cocco della sua superba Africa; così il poeta negro, statunitense del Missouri, Langston Hughes, si rifà, con grande potenza evocativa, alle origini, alla storia del suo popolo, in una poesia che è uno dei documenti più alti della presenza dei negri nella poesia e nell’arte degli Stati Uniti, Our Land (“La nostra terra”), in perfetta sintonia con l’epopea corale degli «scalzacane» e i prodromi di una svolta ecologica della poesia di Rocco Scotellaro. Se nella menzionata quarta strofa della seconda sezione di Le cygne, inserita nei «Tableaux parisiens» di Les Fleurs du Mal, Charles Baudelaire evoca uno scenario di esilio e solitudine e nello stesso tempo di nostalgia della terra solare delle origini («Je pense à la négresse , amaigrie et phthisique, / piètinant dans la boue, et cherchant, l’oeil hagard, / les cocotiers absents de la superbe Afrique / derrière la muraille immense du brouillard»), nelle prime due strofe di “La nostra terra” (ora nell’edizione mondadoriana dell’Antologia dei poeti negri d’America, curata da Leone Piccioni e Perla Cacciaguerra, uscita nel 1964), il poeta introduce un’analoga situazione tra la desolante realtà del presente e l’aspirazione allo splendido mondo delle radici perdute («Dovremmo avere una terra di sole, / di sole radioso, / una terra di acque profumate / dove il crepuscolo è un fazzoletto di seta / rosa e oro, / e non questa terra / dove fredda è la vita. // Dovremmo avere una terra di alberi, / di alti alberi folti, / che s’inchinano sotto il peso di pappagalli cinguettanti, / sgargianti come il giorno, / e non questa terra dove gli uccelli sono grigi»):
We should have a land of sun,
of gorgeous sun,
and a land of fragrant water
where the twilight is a soft bandana handkerchief
of rose, and gold,
and not this land
where life cold.
We should a land of trees,
of tall thick trees,
bowed down with chattering parrots
brilliant as the day,
and not this land where birds are gray.
Langston Hughes era molto attivo negli anni Quaranta, proprio in quel decennio su cui prima ci si è particolarmente concentrati, e conosciuto in Italia con Nel mare della vita, che Einaudi gli pubblica nel 1948 ,e Mulatto, edito da Mondadori nel 1949, mentre già nel 1931 Jorge Luis Borges gli traduce la splendida lirica, The Negro speaks of Rivers, uscita sul secondo numero di «Sur», El negro habla de ríos, e nel 1937 ne scrive anche una Biografía sintética, poi in Borges en El Hogar, stampato nel 2000 a Buenos Aires; di Hughes, nel 1968, Longanesi pubblica Piccola America negra. Da schiavi a padroni, e Lerici, nello stesso anno, le Poesie.
Ritorno in Lucania: il “seme” di Scotellaro nei poeti della nuova generazione
Ora, dopo esserci spinti nell’“oltre” e superati i confini, come in una Ringkomposition, ritorniamo in Lucania, dove l’“alito” di Scotellaro, il “seme”, dopo la sua morte, non solo è andato “lontano”, ma si è ormai trapiantato in un gruppo di poeti lucani, a cui Sinisgalli, persuaso che ormai Tricarico era diventato “la capitale del mondo contadino”, apre le porte della sua «Civiltà delle macchine», Giulio Stolfi, Vito Riviello, Mario Trufelli, Michele Parrella, la cui lirica, uscita sul “Semaforo” dell’ultimo numero della rivista nel 1955, riprende il motivo iniziale di È fatto giorno con un’esortazione che sembrava non avere avuto seguito: «Ora mettiamoci le ali, possiamo osare / non cadremo più, non cadremo ancora / i giorni ci aprono un varco». Ed è un altro poeta lucano, Alfonso Guida, che, in Le spoglie divise. Poesie per Scotellaro (1991, poi in «Forum Italicum» del 2016) scandendo nel verso finale dell’ultima, «Il sud è morto. Tu ne spulci le ombre», riesce a esprimere in rapida sintesi il senso storico di tutta l’attività scotellariana, letteraria, politica, civile, e del trapasso di civiltà ormai avvenuto, alla fine della ricostruzione poetica per quadri emblematici di quella breve tormenta esistenza. Per «Rocco, Rocchino, il Malpelo» di Tricarico, il valore della sua «socialità è l’incoscienza / di un’aurora fraudolenta» e, pertanto:
In un finto,
giardino, le macerie non potranno
coprirti di merletti e gentilezze.
I gesuiti hanno bruciato le teste
dei vilucchi. Mia madre getta tozzi
di pane non ai cani, ma sui tetti.
Più nessuno verrà qui a festeggiarti.
Le teste bruciate dei vilucchi presentano una densa e allusiva metafora, la semantica complessa di un emblema che viene cancellato e si riverbera sulla civiltà contadina, attraverso i suoi canti popolari, che ne esprimono i sentimenti più spontanei e profondi, di cui Scotellaro aveva dato uno specimen in una breve lirica del 1950, intitolata proprio Il vilucchio:
Ricrescerà il vilucchio sui balconi
con la corolla che si chiude a sera,
io ti rivedo nella primavera
sei quella che mi prendi e mi abbandoni.
Che mi abbandoni e te ne vai sul mare:
dove lascio gli agnelli a pascolare?
(TO (EfG) 23)
A parte l’eco delle Lavandare di Pascoli, colpisce la rima in -era (‘primavera’ con ‘sera’), apparentemente banale, ma in realtà voluta e ponderata da Scotellaro, come si evince in un’altra lirica affine dello stesso anno, Il sole viene dopo, dove compare la stessa rima (questa volta, ‘primavera’ con ‘era’):
Sono nate le viole nei tuoi occhi
e una luce viva che prima non era,
se non tornavo quale primavera
accendeva le gemme solitarie?
Vestiti all’alba, amore, l’aria ti accoglie,
il sole viene dopo, tu sei pronta.
(TO (EfG) 85)
L’accostamento di queste due brevi, fulminanti liriche, attraverso il richiamo significativo e immediato dello stesso gruppo rimico, ci richiama all’affiorare delle rimosse pulsioni inconsce soprattutto nei significanti verbali. E la pulsione nemmeno tanto inconscia di queste due poesie è chiaramente erotica. E Scotellaro, il Sindaco e poeta del mondo contadino di Tricarico, il poeta ˗ secondo l’illuminante definizione di un amico e collega prematuramente scomparso, Andrea Battistini, in Rocco Scotellaro, la voce del silenzio, uscito nel 2016 su «Forum Italicum» ˗ della «Lucania tutta, e con essa di tutte le Lucanie del mondo, ogni Sud di ogni continente, ogni mondo subalterno che vive la stessa condizione antropologica», non solo ci lancia una preziosa indicazione ecologica, ma, per completare la risposta al quesito iniziale del perché abbiamo ancora bisogno di lui, ci lascia anche un messaggio semplice e insieme profondo, spesso dimenticato o sottovalutato, un chiaro messaggio dell’importanza assoluta dell’amore.
4.FINE