«La violenza legata al mondo del calcio non è cresciuta negli ultimi tempi; è solo più mediatica». Sebastien Louis, storico, sociologo e autore del libro Ultras, una vera e propria “bibbia” del settore, è considerato il massimo esperto al mondo dello studio delle tifoserie organizzate. Negli occhi e nella mente delle persone ci sono ancora le immagini recenti dei violenti scontri a Napoli con i tifosi dell’Eintracht, il furto dello striscione a Roma o, ancora, gli scontri tra ultras in autostrada a inizio anno: tutti episodi che hanno spinto i media a parlare di una escalation di violenza legata al mondo del tifo organizzato. Ma Louis – che è dottore in Storia Contemporanea, si è specializzato nello studio del cosiddetto tifo radicale in Europa e in Nordafrica e interviene regolarmente in conferenze internazionali sul tema, oltre a collaborare con diverse istituzioni, tra cui l’Unesco e l’Istituto del Mondo Arabo – non ha remore nel dire che l’escalation di violenza tra tifoserie raccontata dalle cronache non corrisponde a un incremento statistico dei casi.
Le trasferte vietate sono
il fallimento delle istituzioni
Le cronache raccontano di un’escalation di violenza legata al mondo ultras. Lei dice che non è così: perché?
Oggi come oggi anche se sembra aumentata, la violenza non è cresciuta. Le statistiche dimostrano come questi episodi siano in netta diminuzione rispetto a quanto avveniva negli anni Sessanta, Settanta, Ottanta o Novanta. La differenza rispetto al passato è che oggi la violenza è mediatizzata. I fatti di Napoli-Eintracht o quanto accaduto tra napoletani e romanisti, ad esempio, sono notizie che hanno fatto rapidamente il giro del mondo. La polizia e le autorità non sanno gestire questo fenomeno. Quello che è successo a Napoli con i tifosi tedeschi è il fallimento delle istituzioni che hanno vietato la trasferta dapprima a tutti i supporter e dopo solo a quelli residenti a Francoforte, cosa totalmente inutile.
Tra le pagine del suo libro, Ultras, gli altri protagonisti del calcio, scrive anche della violenza legata proprio al mondo ultras: si tratta di un legame che ha radici lontane nel tempo…
Si deve parlare del rapporto tra tifo calcistico e violenza: il loro legame è antico tanto quanto questo sport. Mi spiego meglio. Il primo campionato in Italia si è disputato nel 1898 con tre partite alla giornata e una media di 400 spettatori. I primi atti di violenza che ho trovato nelle mie ricerche risalgono al 1904 e precisamente a Juve-Genoa quando i pochi spettatori aggredirono l’arbitro perché, in quanto borghesi ed aristocratici, scommettevano somme di denaro importanti. Nel 1914 in un Livorno-Pisa si spararono con le pistole, nel 1920 il primo morto negli stadi a Viareggio nel match contro la Lucchese con un carabiniere che sparò a uno spettatore intento a fare il guardalinee. Anche nell’epoca fascista c’è sempre stata violenza negli stadi. La violenza non è nata con il movimento ultras: ha sempre accompagnato il calcio. In Inghilterra, ad esempio, già nel diciannovesimo secolo c’erano scontri tra fazioni opposte.
La rivoluzione ultras
nasce negli anni Settanta
Quando nasce il fenomeno ultras in Italia?
Il fenomeno ultras nasce tra il 1967 ed il 1971 con la trasformazione della società e della gioventù italiana. In quel periodo c’è una vera e propria rivoluzione su tutti i campi, compreso quello calcistico. Alla fine degli anni Sessanta c’è una vera e propria onda nuova di tifosi molto giovani che, non soddisfatti dal tifo esistente in quel momento, vanno a creare una specie di superclub che sarebbero i primi gruppi ultras. Quest’ultimi nascono nel triangolo industriale (Genova, Milano e Torino). E hanno dato la spinta a un nuovo modo di andare allo stadio.
Ma quindi, ricapitolando, c’è stato un periodo storico in cui la violenza non affiancava il calcio?
La prima generazione di ultras non è stata violenta, lo è diventata successivamente a causa del calcio ma soprattutto per via dei militanti politici. Nei primi tempi del fenomeno ultras in Italia c’erano diversi gemellaggi oggi scomparsi come Juve e Roma o Milan e Verona.
La politica nelle curve
è fantasma e provocazione
A proposito, quanta politica c’è nelle curve?
La politica nelle curve è fantasma e provocazione. Sin dalla nascita del movimento ultras nelle curve c’è stata la politica. Se guardiamo gli anni Settanta, ad esempio, l’idea di fare un corteo nasce dai gruppi extraparlamentari. Poi ci sono i nomi dei gruppi, come le Brigate Rossonere del Milan, le divise o alcuni slogan. Diciamo che è stato utilizzato tutto quello che c’è intorno alla politica e non la politica stessa. Negli Settanta le curve erano prettamente di sinistra: gli stadi sono specchio della società e in quel momento la gioventù era maggiormente di sinistra. La maggior parte dei simboli erano utilizzati a scopo provocatorio perché non c’era infiltrazione di Brigate Rosse o altri gruppi politici. Successivamente, c’è stato un cambio: l’estrema destra ha iniziato a riscontrare i primi successi. L’Italia è diventato un paese di immigrazioni e quindi alcuni gruppi di destra hanno approfittato degli stadi per appoggiare partiti come Forza Nuova: l’esempio più importante è agli inizi degli anni Novanta con Roberto Fiore. Si vedevano, in quegli anni, tanti simboli di estrema destra ma anche qui si trattava di provocazione perché non tutti erano schierati a destra. Questo fenomeno è culminato quando, agli inizi del Duemila, le Brigate Autonome Livornesi si sono costituite. Quest’ultime adottavano una politica “sovietica” e utilizzavano diversi simboli di estrema sinistra. Quando, ad esempio, il Livorno giocava a Roma contro la Lazio o contro la Roma si potevano vedere tanti simboli di estrema destra. Oggi la politica non è nell’interesse degli ultras, poche curve sono schierate.
Flop delle leggi speciali
Non risultano utili
Lei prima parla di “fallimento delle istituzioni” nella gestione dell’ordine pubblico: quali sono le differenze di approccio tra i principali campionati europei?
In Germania c’è repressione e prevenzione, funziona benissimo. In Inghilterra c’è repressione ma allo stesso tempo non c’è mai stato il divieto di trasferta per gli ospiti, e questo è interessante. In Francia ci si basa sul modello italiano ma anche sul dialogo perché c’è l’ANS (Associazione Nazionale Tifosi) che è una specie di lobby per gli ultras: funziona bene perché permette di poter fare richieste come ad esempio quella di eseguire una torciata durante una partita. In Belgio, invece, funziona un po’ come in Germania. In Svezia c’è un modello molto interessante. Diciamo che in Europa abbiamo tanti modelli e diversi tra di loro. Mi piacciono sia quello tedesco che quello svedese. Il modello spagnolo non funziona per niente, è fatto da sola repressione. Credo che la Spagna sia il paese più repressivo con l’Italia. Queste leggi speciali non servono a nulla, non sono utili per nulla.
In Germania un modello da seguire
per prevenzione e repressione
Quale modello le pare il più virtuoso?
Io direi il modello tedesco: è senza dubbio il più interessante. In Germania non c’è quasi mai una trasferta vietata. Quando sono proibite è per un gruppo in particolare. A tal proposito, ricordo un derby della Ruhr tra Schalke e Dortumund quando ad alcuni gruppi del Borussia fu vietato andare a Gelsenkirchen. I tedeschi hanno sia repressione che prevenzione ed è questo il modello da implementare perché vincente. I prezzi sono popolari, c’è di tutto nello stadio con i soli fumogeni che sono vietati anche se le sanzioni sono meno aspre rispetto a quelle italiane.
Alcuni anni fa la curva dello Sporting Lisbona omaggiò con una scenografia le curve italiane: come ha fatto il modello ultras d’Italia ad imporsi nel mondo?
Il modello ultras quando è nato ha rivoluzionato il modo di tifare per una squadra. Bisogna saper distinguere le varie modalità cioè il modello inglese degli Hooligans, modello argentino, le torcide brasiliane o il modello balcanico. In Italia il movimento ultras crea una sintesi tra quello inglese e dei movimenti extraparlamentari degli anni Settanta. Un motto diceva “Tifo e violenza”, quest’ultima non sarà l’attività principale dell’ultras perché il fulcro di tutto è il tifare per i propri colori. C’è stata dunque la trasformazione del modo di sostenere le squadre in una direzione più coreografica con la ripresa dei cori inglesi e la presenza di grandi striscioni. Questo modello negli anni Ottanta, Novanta e Duemila si impone dapprima nell’Europa Latina con gli spagnoli primi a riprendere tale modalità di tifo e poi i vari francesi, portoghesi, jugoslavi. Arriva anche nel Nord Europa negli anni Novanta e poi, grazie anche ad internet, in tutto il mondo negli anni Duemila.
Quali sono stati gli aspetti che hanno portato all’espansione del modello ultras italiano?
L’essere coreografico e meritocratico. Grazie a questi due elementi il movimento italiano si è esteso anche in culture lontanissime come Indonesia, Nord Africa, Canada, Palestina, Sudan o Iraq. Quindi, attraverso la coreografia, i tifosi dello Sporting hanno voluto sottolineare come nonostante la repressione i padri del modello ultras siano gli italiani da mezzo secolo.
Qual è, secondo lei, l’episodio del tifo mondiale che è stato più edificante e positivo?
Io direi il Covid. Appena è iniziata la pandemia si è smesso di giocare, nel maggio 2020, quando si poteva ripartire, tutti hanno spinto per tornare in campo. C’è stata, invece, un’unione degli ultras in questo periodo, partita proprio dagli italiani e poi si è estesa nel mondo. Il fine era voler sottolineare quanto in quel momento la priorità doveva essere la salute mondiale. Il calcio è da anni non uno sport ma industria del tempo libero che mira a produrre più soldi possibili. Il tifoso non è un cliente perché, a differenza di quest’ultimo, non viene neanche considerato; anzi viene visto solo in maniera negativa.