Il marketing a rovescio: farmaci brandizzati vs equivalenti

La vendita dei medicinali generici non decolla nel nostro Paese e la naturale diffidenza degli italiani può essere spiegata anche attraverso aspetti sociologici e culturali

Tempo di lettura 3 minuti

Negli anni ’90, quando da lì a poco sarebbe diventato obbligatorio vendere nelle farmacie a fianco dei farmaci famosi altri analoghi con gli stessi princìpi ma chiamati col nome della sola molecola, fui coinvolto con l’Associazione di Consulenti Pubblicitari a offrire una definizione che identificasse la categoria di questi farmaci non brandizzati: come si doveva chiamare? Si misero in moto belle menti creative e vennero fuori nomi singolari, intelligenti. Ma alla fine il Ministro della Sanità preferì il nome che definì “Adatto allo scopo”: farmaci generici (…e tutta la farmaceutica sturò champagne di marca).

Noi pubblicitari rimanemmo attoniti, evidentemente di comunicazione e mktg ne sapevamo molto meno del ministro, così ci mettemmo a scavare tra i sinonimi di generico… Bhè, per un farmaco che doveva curare alla pari di un farmaco brandizzato, non trovammo niente di buono: il senso era indubbio, generico significava incerto, vago, indistinto, indeterminato, impreciso, approssimativo, proprio il contrario di ciò che avrebbe dovuto garantire… però era in linea con il “marketing a rovescio” della farmaceutica: cioè presentare questi farmaci economici come inadeguati, inappropriati, insufficienti, scarsi.

Poi col decreto legislativo 219/2006 si recepì con ritardo la direttiva europea 2001/83/CE, e fu adottata (obtorto collo) la terminologia di farmaci equivalenti, l’UE pretese che si evidenziasse che questi medicinali fossero bioequivalenti, cioè con la stessa efficacia del farmaco brandizzato.

Siamo buon ultimi in Europa

Son passati quasi venti anni, ma la nuova denominazione qui in Italia ancora non fa troppi proseliti e finanche nelle farmacie c’è chi ancora li chiama generici. Secondo i dati più recenti, l’uso dei farmaci equivalenti in Italia è intorno al 30% del totale delle prescrizioni, mentre la media europea si attesta al 50%. Questa differenza significativa riflette vari fattori, tra cui le politiche di salute pubblica, le preferenze dei consumatori e -soprattutto- le strategie di marketing delle aziende farmaceutiche che -come diremo appresso- in Italia pare siano molto convincenti presso medici e farmacisti, con qualche differenza regionale.

Nel Nord Italia, l’uso dei farmaci equivalenti è più diffuso, con percentuali che raggiungono il 40%; nel Centro Italia, l’uso dei farmaci equivalenti si attesta intorno al 25%; nel Sud Italia infine l’uso dei farmaci equivalenti è ancora meno comune, con percentuali che scendono al 20%. Qui entrano in gioco fattori culturali e sociologici, come una maggiore diffidenza verso i farmaci senza nomi conosciuti e quindi una preferenza per i prodotti di marca percepiti come più affidabili.

A livello europeo, l’uso dei farmaci equivalenti varia molto. Ad esempio, in Germania la quota di mercato dei farmaci equivalenti è oltre il 75%, mentre nel Regno Unito è intorno al 75%. Paesi come la Francia e la Spagna si avvicinano alla media europea, con percentuali rispettivamente del 60% e 50%, ma anche Paesi più piccoli come Austria, Cechia e Slovacchia gravitano intorno al 50%. Solo noi in Italia siamo così restii ad usarli.

Strategie di marketing: gli italiani amano i farmaci con bei nomi…

Una delle ragioni principali per la disaffezione dei farmaci equivalenti in Italia è la forte presenza delle strategie di marketing delle aziende farmaceutiche che producono farmaci di marca. Queste aziende investono ingenti somme per la ricerca di nomi adatti a fissarsi facilmente nella mente delle persone: pensiamo a Moment, Oki, Buscopan, Zerinol, Spasmex, Benagol, etc.., dietro questi nomi ci sono studi e mesi di test fatti su migliaia di persone, ma non solo: le aziende farmaceutiche utilizzano varie strategie per mantenere la loro quota di mercato tra i brandizzati. Tra queste troviamo:

  • Pubblicità ai consumatori: in Italia la pubblicità diretta dei farmaci è regolamentata, ma le strade della comunicazione sono infinite; uno spot TV, per esempio, se conclude con “mi raccomando, chiedi conferma al tuo farmacista!”, diventa un consiglio di salute.
  • Promozione ai medici: Le aziende spesso offrono incentivi ai medici, come campioni gratuiti, inviti a conferenze, viaggi e altri suggerimenti per far prescrivere farmaci e integratori miracolosi.
  • Brand loyalty: I farmaci di marca spesso costruiscono una forte fedeltà al marchio per cui convincere un vecchietto o una persona poco attenta a prendere un equivalente è spesso duro.

La diffidenza verso i farmaci equivalenti può essere spiegata anche attraverso aspetti sociologici e culturali. Sulla scelta personale incide molto: l’influenza della comunità in cui si vive, l’informazione, la cultura, ma soprattutto la percezione di qualità associata al prezzo più alto.

E sulla percezione di qualità, c’è un aneddoto accaduto davanti a me: l’Omeprazolo.

È un farmaco che siamo in molti a usare come protezione contro le cento pillole giornaliere, per i problemi gastrointestinali; bene, quel giorno il farmacista spese un bel po’ di tempo a spiegare le non differenze esistenti tra il Losec e l’Omeprazolo equivalente: “Entrambi i farmaci contengono lo stesso principio attivo, riducono la produzione di acido nello stomaco… l’Omeprazolo generico è altrettanto efficace quanto quello di marca, etc, etc… l’unica differenza sta solo nel costo: l’Omeprazolo equivalente costa 6-7 € in meno e sono entrambi prescrivibili

Il paziente ascoltò attento e con molto interesse tutto, annuendo alle affermazioni del farmacista e sembrava convincersene addirittura… ma poi alla fine sciogliendo il dubbio disse “ma se costa di più significa che l’originale è meglio, dottò datemi ‘o Losec”.

Sipario, tutto come prima. Il marketing personale ognuno se lo fa da sé, e noi in Europa rimaniamo ai minimi del 30% per l’uso degli equivalenti, quando perfino nei paesi più ricchi europei badano a risparmiare miliardi (di euro).

Carlo De Sio

Laureato in Scienze Politiche ed Economiche, con Master in Psicologia sociale e P.R, ha lavorato nella Comunicazione d’impresa e nelle Relazioni Pubbliche per oltre 40 anni. Ha fatto parte dei direttivi di Organismi nazionali quali ACPI-Milano, FERPI-Milano e Confindustria. E’ iscritto all’Ordine dei Giornalisti dal 1999.
Fa parte di un gruppo di specialisti per la revisione di testi generati dall’I.A. e partecipa nel Deep Web a un gruppo di approfondimento che ha come focus notizie e valutazioni sulle crisi politiche in atto.

Previous Story

Pizza marketing: tra gloria social e concrete passività

Next Story

Il paradosso del marketing: food delivery, milioni di ordini e miliardi di perdite