al vuoto centrale/dirsi, ogni giorno/svegliarsi nidificare/tornare//hai fallito ogni giorno,/nuoti verso il nulla verso//ogni giorno un vuoto verso.
Michela Gorini, I blues, Anterem, pag. 33
Libro di canti e d’incanti, di versi appena iniziati e iniziatici. Non finiti. O, forse, per ciò finiti del tutto. Infiniti e sfiniti. Giocati con giochi di cadute e di separazioni. Scrittura Lacan a-mente, cautamente “mancante”. Bene detto/scegli la foglia/scegli la che scivola //Benedetto colui che.
Un volumetto agile, che buca un’assenza o un’essenza generatrice. “I blues” per misurare il senso prima che esso si educhi. Per tentare di dirlo. O dirlo il senso, ma smorzarlo prima che si cristallizzi, come scrive Stefano Guglielmin nella quarta di copertina. “I Blues” canto di liberazione e voce acuta, non neutra. Voce di pensiero che pensa la sua stessa voce come canto di solitudine. Blues//puis je suis/seul// absolument seule//où. Volontà intesa come non intesa. Vastità interiore e nessun campo ma luogo. Spazio dell’essere e svelamento (resurrezione?) della parola. Dolore. Ti si agghiaccia mai la vita? Un domandare secco e improvviso. Estemporaneo e brusco come solo può essere un canto che nasce da una regione o ragione ineffabile, “opposta”. Un controcanto impilato a quel gesto comune del linguaggio ordinario. Ordinato e per ciò nullo. Una poesia, quindi, quella della Gorini, che procede per tentativi apparentemente estemporanei, ma che ha il rigore dell’amarezza e la risoluzione di un linguaggio metamorfico. Spezzato. Impedito. Sospeso. Ne esce una grammatica separata da se stessa. Una lingua che è un’altra. O sono diverse lingue.
Una scrittura al di qua, che drammatizza la parola e la rende udibile muovendola verso l’interno e prima che si stabilizzi, si blocchi, si anticipi. “I Blues” oscurità, scioltezza, congedo. Un testo sull’impeto di una nozione di stile e di forma che predispone all’ascolto di una lingua interrogante e intricata, dunque una fraseologia assorbita da un silenzio che non è taciuto ma piuttosto aperto. Si potrebbe dire al freno dei nervi. O delle accordature, tonali o semantiche che siano. “I Blues” ancora come necessità fondante di una scrittura. Tu, solo a margine/scrivere, dico. Ricerca, allora, di un’armonia e di un senso, di una “parola” e di un’esistenza. Essere. Essere la malattia dell’essere. la maladie de l’être c’est/presque rien d’autre/de l’être rien d’autre/qu’une autre/solitude à penser/une autre/solitude à être/à mentir et toi. “I Blues” come in-vocazione di un essere in dimenticanza. Heidegger resta ancora il faro di una possibile analisi del linguaggio poetico che si disegna sempre di più come un percorso fecondo quanto ineludibile. C’è, tuttavia, nella Gorini, in questa straordinaria poetessa, una visibile impronta nomade, come se il differenziale spaziale si determinasse per spostamenti. Non un luogo, ma i luoghi. Il dove non sei mai stato. Il tempo che non hai vissuto. Il tu dentro una lettera. Il fuori dentro l’abisso. La testa dentro un corpo che ammutolisce. Nonostante/resti muto nonostante/resti la testa fornisce/riforma, soggetto la testa testa/luogo di/riforma e foresta.
Lo spazio ci fa riflettere così anche della dislocazione del testo e di conseguenza del libro. Di un libro che si dà in superfice e di un altro che si dà in uno spazio altro, altero e rigorosamente insufficiente. D’altra parte la scrittura dopo Derrida si dà quando si dà soltanto per “différance”. Questa evoluzione, ovviamente, non significa impotenza né decostruzione ma aumento assolutamente irreversibile, se si concede di scrivere quell’assolutamente nel senso di un “assoluto” paradossale e quindi meno assoluto. Né l’identità né la differenza. Né il velo né lo svelamento. Né il dento né il fuori. Derrida sa essere chiaro più della sua stessa oscurità. Non si tratta di pianificare ciò che per sua natura è pianificato, ma di sentire. Di mettersi in ascolto, di predisporsi all’essere. E di marcare quel terzo incomodo che è il linguaggio nella sua discordante posizione di seminazione per différance. E arrischiarsi a non voler dire nulla. Entrare in gioco. E, nel gioco, giocare all’eventualità di un senso. Di uno spazio sovvertito. E del tempo vivo di un pensiero presente. Di una voce e di un corpo. “I Blues” offrono questa possibilità, sono l’accesso a un corpo (testo) e a un racconto: un “sapere che guarda l’esistere”. Vita, scrive l’autrice, ha a che vedere con una trama di narrazione. La soluzione più precisa all’equazione della vita è il corpo senza voce, solo suono, temperatura. “I Blues” sono questo libro e tanti altri ancora. Sono il canto dell’essere. Sono la foresta di una lingua impraticabile e indistinta. leggi se vuoi, leggi. “I Blues” sono l’esortazione. Sono una danza. Un declino. Un sonno feroce. Forse una scrittura, forse no.
[Michela Gorini, I blues, Anterem, pag. 33]
Michela Gorini 1971, psicoanalista. Ha pubblicato “Diario del sangue delle ossa”, Giuliano Ladolfi 2021. Opera che si aggiudica il Premio Bologna in Lettere, “La tua formula invertita femmina”, Kolibris 2020, “La produzione di amore”, Dot.com Press Poesia 2018.