“La politica culturale non è né di destra né di sinistra”. La frase è attribuita a Salvo Nastasi, una delle carriere più folgoranti della storia italiana, quella di un pubblico funzionario del Ministero Beni Culturali, passato in pochi anni a dirigere tutte le più importanti istituzioni culturali del paese. Una brillante carriera che ha attraversato dal 2000 ai giorni nostri ben cinque ministeri, da Urbani a Bondi a Franceschini, passando per Giancarlo Galan, Lorenzo Ornaghi, Massimo Bray, oggi approdato alla SIAE. In questo caso, di sicuro la politica culturale non ha confini passando allegramente tra destra e sinistra. Ma se Nastasi è un episodio eccezionale che riguarda un membro di una potente famiglia (Minoli Bernabei), di sicuro smentisce la teoria dell’”underdog”, affermata furbescamente dalla Meloni alla sua investitura a premier, una sfavorita emersa a fatica e con tanti sforzi.
In realtà la Meloni, come la destra, sono emersi da parecchio, il suo percorso è quello consueto di una carriera politica, partita da uno scarso seguito elettorale e poi cresciuta nel consenso dei cittadini. Il termine non è stato scelto a caso; con esso si vuole rafforzare quel sentimento di riscatto degli appartenenti a Fratelli di Italia che sarebbero rimasti a digiuno per l’eredità fascista; una eredità, del resto, da loro stessi scelta e mai rinnegata del tutto. Tale percezione del tutto peregrina li mette nella comoda posizione di rivendicare una sorta di risarcimento danni, di più di quanto già non abbiano preso negli anni con Forza Italia e la Lega, al riparo di conflitti di interesse grandi e piccoli, con una bulimia per nulla giustificata. Se infatti andiamo a guardare dal punto di vista della cultura cosa sia successo negli anni – e di cui il caso Nastasi è emblematico –la destra non se ne è stata mai con le mani in mano.
Nel 2008 suscita vivaci polemiche la scelta di Berlusconi di mettere Sandro Bondi, suo devoto segretario, a dirigere il Mibac, dopo Urbani e Buttiglione (non certo di sinistra), il quale Bondi nomina Mario Resca, ex amministratore delegato di McDonald’s alla gestione dei musei italiani. Sempre Bondi, animato da furore revanscista, chiude l’Ente Teatrale Italiano, nato nel dopoguerra e che gestisce alcuni dei teatri più importanti della penisola.
Certo, anche la sinistra o meglio il Pd, non si è fatta mancare niente ed è questo il principale motivo della scarsa opposizione attuale. La riforma 2015 della prosa di Franceschini grida ancora vendetta, con la nascita dei Teatri nazionali, con requisiti così stringenti da eliminare del tutto il Sud sotto Napoli, nonostante la presenza di un notevole carico artistico e produttivo in quei territori. Così, se Veltroni a Roma da una parte apre case del cinema e del teatro e lo splendido Auditorium, dall’altra regala migliaia di ettari ai costruttori; la riforma Franceschini/Nastasi è di marcato stampo liberista, si premiano i più forti e garantiti, si eliminano i minori e i “poveri”, una manovra non molto diversa da quelle di Renzi , o dell’ultima di Meloni che elimina il reddito di cittadinanza per gli “occupabili”. Le stesse risorse del FUS (il Fondo del Ministero che sostiene enti lirici, musica, danza e prosa) si assottigliano ad ogni anno con Leggi Finanziarie di vari governi e la riforma del Titolo V della Costituzione, governo D’Alema, determina ulteriori sinergie delle politiche del settore tra Stato e Regioni, sempre a prescindere da chi le presiede.
Ci troviamo così oggi alle prese con diversi presunti “underdog” che rivendicano peso e visibilità nei posti chiave (vedi caso Fazio alla Rai) di cui il neo Ministro Gennaro Sangiuliano si è reso interprete con varie azioni; spicca tra queste la nomina al Museo Maxxi di Alessandro Giuli, giornalista del Foglio e di altre testate, autore di libri come “Il passo delle oche. L’identità irrisolta dei postfascisti”, o “E venne la Magna madre: i riti, il culto e l’azione di Cibele Romana”, pubblicazioni che gli fanno conquistare il grado di portavoce della destra nei salotti televisivi e la direzione del prestigioso museo romano, voluto proprio dall’allora ministro Veltroni nel ’97, seguito dalla Melandri, la quale poi andrà a dirigere esattamente il Maxxi. Una legge del contrappasso che suggerisce a Sangiuliano di varare addirittura “Gli Stati generali della Cultura”. Ad essi è stata chiamata a raccolta la vasta e sempre più copiosa schiera di “intellettuali di destra”: Pietrangelo Buttafuoco, Marcello Veneziani, Francesco Borgonovo, Stefano Zecchi, Pietro Senaldi ed altri, fino a Federico Palmaroli in arte Osho. Organizzatore Gianmarco Mazzi, sottosegretario al Ministero, tra i massimi organizzatori di eventi italici, da Sanremo all’Arena di Verona (di cui è stato amministratore delegato) al quale si devono iniziative e programmi di tutti i segni, da Celentano a Dario Fo, da Vasco Rossi a Gianni Morandi. Un uomo “con le mani in pasta” che ha organizzato i maggiori eventi musicali italiani, anche di personalità non certo legate alla destra e che conferma una linea che non elimina ma premia i conflitti di interesse. “L’obiettivo, dichiarano, è pensare l’immaginario italiano” che non si capisce cosa voglia dire ma soprattutto “ridare dignità e forza alla cultura nazionale che non è quella proposta da chi in questi anni l’ha gestita e pensata”.
Ecco il punto, cambiare narrazione, chiamare il Paese Nazione, reintrodurre la parola patria, ritrovare i miti perduti, tenere calda la fiamma. Ma non basta una adunata di “camerati”, più o meno devoti, per cambiare indirizzo alla cultura italiana. Se la cultura è stata, almeno per tutto il Novecento, legata alla sinistra, non è un caso. È nel ‘48 che nasce la prima commissione di politica culturale del Partito Comunista che già conteneva al suo interno visioni diverse ampiamente dibattute. Una commissione voluta da Togliatti che lavora per tenere insieme intellettuali e classe operaia; una storia che attraversa per l’intero secolo varie fasi con illustri protagonisti, da Vittorini alla Rossanda, alla creazione di istituti e riviste culturali, a cominciare da Rinascita. È del ’63, appena nato l’omonimo Gruppo, la lettera che scrive un giovane Umberto Eco a Rinascita che invita il Partito ad aprirsi a nuovi linguaggi, alle avanguardie storiche, alle nuove espressioni della cultura di massa (ne parla un recente volume di Claudio e Giandomenico Crapis, Umberto Eco e la politica culturale della Sinistra). Eco si riferiva alla musica pop, ai fumetti, alla TV, al cinema, alla letteratura di quegli anni con gente come Antonioni o Moravia, espressione, secondo lo scrittore, di una acuta critica alla società del benessere. Lo stesso Pasolini, sia pure in maniera sofferta, faceva dichiarazioni di voto al PCI insieme a Basaglia, promotore di una riforma epocale della salute mentale. Una storia annosa che va da Gramsci ai contemporanei, molti dei quali hanno lasciato i loro archivi agli istituti del partito, come Visconti, Squarzina e altri. Una cultura lunga un secolo, nata in una ampia area di dissenso e di critica al potere che unisce scrittori, professori, case editrici, artisti, riviste, gente di teatro. Una vicenda con la quale, prima di parlare a vanvera, la destra dovrebbe misurarsi chiedendosi perché, pur avendo avuto per anni posizioni di potere (altro che “underdog”), non ne ha mai fatto parte. Per “pensare l’immaginario”, bisogna averlo coltivato per decenni. Studiate, insomma, poi ne riparliamo.