Gio Ferri, la poesia come poema interminabile

Per una figura tra le più rilevanti della poesia di ricerca del secondo Novecento, Anterem ha realizzato un progetto che ha come genesi la composizione di una raccolta delle sue più efficaci opere di poesia, scandite in diverse sezioni, corrispondenti alle varie fasi della sua produzione, dagli anni Sessanta al Duemila

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Malgrado certe apparenze questo esercizio scritturale non è né piaggeria dedicatoria nei confronti di alcuni poeti prediletti o amici, né un manierismo reiterato di citazioni, né tanto meno un ludo ‘alla maniera di…’: si tratta più materialisticamente di una serie di prelievi minimi (appunto, materici) da gestire nell’ambito della mia attuale progettazione segnica (coinvolgimento fisico nella biologia della parola, nel suo formativo e metamorfico in-significato). Reperti del mio laboratorio di letture e di corrispondenze che vengono arbitrariamente, ma non del tutto (c’è una catena genetica che trascina il fare…), immersi nel brodo di coltura della mia utopia formale. Nella convinzione che anche il più minuscolo brandello di poesia sia un oggetto, un seme vivente, palpabile e prolifico. Gio Ferri, Poesie scelte, Un’autoantologia 1964-2014, Anterem, pag. 341. Con la premessa di Paola Ferrari e saggi introduttivi di Flavio Ermini, Giovanni Fontana, Francesco Muzzioli, Chiara Portesine, Marilina Ciaco. Alle due giovani studiose, faccio subito un plauso per la meticolosità e la chiarezza di una scrittura colta quanto altrettanto esplicativa di un autore non certo facile e dotato di un’energia critica e poetica debordante quanto lucidamente vasta e innovativa. Chiudono il corposo volume, i saggi di Adam Vaccaro e di Vincenzo Guarracino. Così, e non poteva essere altrimenti per una figura tra le più rilevanti della poesia di ricerca del secondo Novecento, gli amici di Anterem hanno realizzato un progetto già caro a Gio Ferri (1936-2018) che ha come genesi la composizione, realizzata in proprio, di una raccolta delle sue più efficaci opere di poesia, scandite in diverse sezioni, corrispondenti alle varie fasi della sua produzione, dagli anni Sessanta agli anni Duemila.

Il testo sopra riportato è l’introduzione di Ferri a Fecondazioni, Book Editore, Bologna 1996. Segna altresì uno spartiacque di una produzione poetica che si avvia alla sua ultima fase che va dal 1997 al 2014. Un momento, quindi, di un itinerario epistemologico e scritturale tutt’altro che lineare, – sebbene non conciliato né conciliatorio ma dotato d’intima coerenza – che va dalle ricerche degli anni sessanta, legate a un’articolazione di tipo ideologico e prammatico, per arrivare agli snodi sperimentali e neoavanguardistici, che si risolvono nell’attenzione a un fare poetico di matrice “biologica”. In altre parole, una scrittura poetica che tenta la via della conoscenza sensitiva della propria autonoma natura. Che guarda solo celatamente all’orizzonte dell’attualità e che, dulcis in fundo, vuole riscattare il piacere dell’inutile come estrema ragione vitale sia della forma poetica sia dell’esistere. Ferri è audacemente trasparente. Quindi il segno, scrive il poeta veronese, nella “Brevissima storia della mia scrittura”, si propone ancora, per diversa via, entro lo spazio, questa volta aperto e plurivalente, di una nuova (im)possibile ideologia della corporeità nella vicenda biologica e cosmologica dell’essere nel dire. Nessuna scienza del linguaggio ma nuovi strumenti interpretativi che danno conto della “cosa poesia” come parola che si va fondando nella sua determinatezza-indeterminatezza fisica. Poesia come possibile costruzione d’impossibilità. Oppure come impossibilità sempre possibile. Un cerchio che attinge inarrestabile alla sua stessa energia ricreantesi e richiudentesi. Quello di Ferri, allora, si disegna come uno spazio sociale e politico, i murali, i manifesti, le fabbriche, gli incontri politico-sindacali, le feste popolari, siamo ancora al primo periodo della sua attività poetica, dopodiché si legga Habitat (1974) e giù fino al “tradimento” di “L’appartamento”(1975) che segna il parziale distacco da una poesia intrinsecamente ideologica e politicizzata per approdare agli spazi aperti di una polisemia finemente strutturata e spartita proprio con altri poeti che, come abbiamo visto introduttivamente, niente ha a che fare con quella debolezza e liquidità postmoderna di cui avrebbe parlato in quegli anni Gianni Vattimo e Zygmunt Bauman. Con Siopé (Anterem 1986) l’annuncio di una classicità deformata in un’ottica ironica è assunto come parola “deviante” e deformante come a voler sostenere l’Idea come qualcosa di materico, di dimensione bassamente (o altamente) carnale. Siopé, annota Ferri, è il silenzio della metamorfosi. Albi, invece, è il luogo di ogni invenzione. Le Navigazioni sono la dialettica ebbra e irrisoria tra la nostalgia dell’assente e l’attenzione materialistica e presenziale alle cose. Si allude alla nostalgia, all’oscura conoscenza, all’approdo, all’eterno ritorno. E si capisce che la poesia di Ferri è un paradigma di silenzio e di conoscenza. Si risvegliano le onde di millenni “stratici”, le narrazioni temporali come le derive delfiche o le alte presenze di tane come abissi di un linguaggio che sproloquia neologismi o correnti deleuziane. La realtà della parola l’univoca e l’insensata/chiama e ridona all’arbusto e dall’arbusto il rizoma/la funambolica linea e il giochevole ri-tratto!/s’aprono apicali smargini/di silenzio alle metabole foglie in fibrale misura/quella pienezza dell’arie. E Gli idilli, infine, sono canti d’amore e piccoli capolavori di scrittura. Ricreazioni è del 1994, precedono di poco Fecondazioni, e sono il tentativo, complesso solo teoricamente, di pervenire a significazioni ulteriori di testi di altri poeti, già per loro stessi ingessati o determinati. La fonte iniziale diventa così uno spartito, scrive Roberto Sanesi in una nota coeva ai testi di Ferri, che non esiste come dato ma che vive soltanto nella storia accidentale delle sue esecuzioni. Riferiamo solo alcuni poeti come Verlaine, Keats, Marlowe, Benn chiamati in lettura da Ferri, ma a spiccare è il nome di una poetessa Cécile Sauvage (1883-1927) con il suo testo Pâle Embryon. Uno scritto di una dolcezza viscerale e sinuosa. Metamorfosi perenne. Metafora di una scrittura del dire senza infingimenti o clausole estetizzanti. Scrive bene Flavio Ermini quando riporta che la vita di Gio Ferri è stata un viaggio verso le zone ignote e imperscrutabili dell’anima, nella convinzione che ciò che veramente esiste è l’uomo interiore. La sua era una voce che non lasciava spazio ad alcuna remissione, ad alcun lassismo, ad alcuna scorciatoia nel corpo a corpo con il testo. Chi ha avuto la fortuna, continua Ermini, di seguire l’opera di Ferri fin dentro gli anfratti della narrazione e della prosa poetica è venuto a trovarsi nel cuore stesso della scrittura. L’ultimo Gio Ferri, gli anni che vanno dal 1997 e il 2014 tracciano una dismisura. Uno sbarco, quello di Ferri di Spazi spastici. Quartine terapeutiche in un Apeiron della parola impura, dove il nulla è assunto a paradigma di una spazialità estroflessa e finalmente materica, ma in disfacimento. Ultimo stadio di una domanda sull’uomo che non interroga altro che il proprio disfacimento. “Eppure ci discettiamo/cariatidi incariate/ci amiamo e dissanguiamo/le protesi implantate”. Tuttavia la ricerca e la sperimentazione continua. In Inventa lengua (Marsilio 1999) la strategia compositiva principale adottata dal poeta è l’ekphrasis. Ma leggiamo le parole di Marilina Ciaco. “Lo spazio, atopico e ubiquo a un tempo, della quartina, trafitta dalle asperità di una lingua impossibile, è ora sostituito da un referente iconico circostanziato, anzi iper-codificato che diviene – o sembra divenire – occasione dell’atto di scrittura.” Si tratta delle formelle della Basilica di San Zeno a Verona ( XI-XII sec.). Un testo sicuramente difficile, ma che cerca una sua traducibilità corrente. Scrive Ferri a proposito: Le storie della Bibbia qui raccontate parallelamente alla narrazione formale dei bronzi di San Zeno, si fanno anche storia di una quotidianità e di una sensibilità espressive del nostro tempo e della nostra civiltà. Ed eccoci a L’assassino del poeta, 35 canti, in quattro volumi pubblicati da Anterem dal 2003 al 2010. Opera interminabile, voce usata dallo stesso Ferri, e, forse, come ogni opera deve essere, si è prestata alla contingenza del Caso, tante volte richiamato dallo stesso autore come dimensione esistenziale se non ontologica, a un piacevole avvenimento. Qui, in questo imponente e ben curato volume sono pubblicati alcuni testi inediti trovati, appunto, per caso dalla figlia dell’autore. Come a dire che il Caso ha voluto perentoriamente esserci. Con Ferri, e finisco con l’invito ad approfondire un autore grandissimo, si assiste a uno dei tentativi più imponenti di scoprire, di assalire e possedere (o respingere) il testo poetico. La poesia, dunque, come spazio essenziale e fondamentale di ogni possibile comprensione umana. “Nessun altro avviluppo mai più ormai mi tocca.”

[Gio Ferri, Poesie scelte, Un’autoantologia 1964-2014, Anterem, pag. 341]

Gio Ferri (1936-2018) è una delle figure più rilevanti della poesia contemporanea. Ha costituito una figura rivoluzionaria, impegnata com’era in audaci connessioni e concatenamenti tra generi letterali, tendenze artistiche, settori editoriali, coniugando unità e differenze tra poesia e grafica, poesia e prosa, narrazione e saggistica, poesia sonora e poesia concreta, scrittura e editoria, traduzione letterale e infedeltà al testo, riflessione poetica e critica militante. Ha dato vita a un pensiero dell’interdipendenza: un pensiero promosso dalla parte del desiderio e colto nei suoi sterminati potenziali di sovversione.

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