Gilberto Di Petta e la ri-significazione della psichiatria

"Fenomenologia alzo zero: il corpo a corpo tra la follia e la cura" è un testo che costituisce uno dei rari momenti fecondi di ricerca, sostenuti da una tenacia e da una lucidità che si riconoscono in una scuola di pensiero i cui antecedenti si chiamano Binswanger, Minkowski, Blankebourg, Von Gebbsattel, Callieri, Ballerini, Basaglia...

Tempo di lettura 12 minuti

La recente pubblicazione del saggio “Fenomenologia alzo zero: il corpo a corpo tra la follia e la cura”, ed. Quodlibet,  porta la prestigiosa firma di Gilberto di Petta (psichiatra fenomenologo),  la cui attività si svolge sui territori flegrei attraversati dalle  trasfigurazioni che oscillano dai tratti dionisiaci fino alle forme dei volti apollinei delle donne recluse nel carcere di Pozzuoli, per incontrare infine le sembianze di quelle forme di esistenze mancate che affollano il Sert  cui fa da contraltare la variegata popolazione afferente al poco distante  SPDC: sono le “figure” che attraversano e definiscono “il campo psichiatrico” odierno colto nel suo momento di profonda involuzione, ovvero di deriva restauratrice cui fa da contraltare questo volume di 300 densissime pagine che costituiscono uno dei rari momenti fecondi sostenuti da una tenacia e da una lucidità che si riconosce in una scuola di pensiero i cui antecedenti si chiamano Binswanger, Minkowski, Blankebourg, Von Gebbsattel, Callieri, Ballerini, Basaglia… Insomma, la scuola fenomenologica.

L’autore Gilberto di Petta

Rare e preziose pagine che testimoniano l’esistenza di una capacità di sottrarsi dal demone postmoderno che vorrebbe affogare qualsiasi tentativo di pensiero critico nel “puro eclettismo di scuola” o, tutt’al più,  in una esibizione di pura erudizione.

Testimonianza rarissima e tra i momenti più ricchi e significativi di questa disciplina in un epoca di dilagante pensiero sommario che ha tratto pretesto dalle “scoperte” della chemioterapia per tentare di dispensare gli psichiatri  dal dovere di pensare e di riflettere.
A partire dal motto della fenomenologia clinica: ” Comprendere è curare”, ovvero fare esperienza del mondo dalla prospettiva del paziente.
Perché? Perché ciò che chiamiamo”malattia mentale” è l’implosione del sé  in sé stesso, e dunque lo sforzo di mettersi nella prospettiva dell’altro, è la “conditio sine qua non” per la cura.
Spiegare, interpretare, diagnosticare sono ostacoli a questa mossa-essere accanto all’altro-, quindi al comprendere, quindi alla cura.
È innanzitutto di questo che parla il testo di Di Petta.
E dunque, affrontare cosa?
La follia, la solitudine, il destino, la complessità,  ma anche l’istituzione.
Ma facendolo con un ethos che è opposto a quello degli uomini con la passione per l’utile e alle loro miserie utilitaristiche, dei modi grigi della cura assimilati dagli psichiatri mainstream e perpetuati come un ordine introiettato e da tramandare.
Risuonano, anche alle mie orecchie, le parole lucidissime di Sergio Piro che, nel 1981 (!!), ebbe a scrivere: “L’orizzonte della questione psichiatrica italiana è cangiante: in nessun altro paese del mondo venne posto così perentoriamente un dilemma, e in nessun altro paese del mondo falchi e alianti si mescolarono così perentoriamente con galline e tartarughe. Ciò che era irrimediabilmente rugoso si confuse con i lampi che attraversavano l’oscurità. E alla fine tutti furono pacificati: vere galline, falchi autentici e galline con le penne di falco, vissero nel paradiso riformato di un pollaio di legno scolpito che non aveva spiragli né favole nuove.
Se qualcuno vagava ancora  nel deserto, solo le sue orme erano visibili.
L’orizzonte della questione psichiatrica italiana è cangiante da luogo a luogo: ciò  che è già stato detto della pianura è la parola nuova della montagna, mentre la miseria montante rinnova meridioni in tutto il paese.
La palude non ha espressioni né rivolgimenti”.
Assimilabile a una figura mitologica, tra le più arcaiche che il Pantheon greco ci ha tramandato, l’araba fenice sembra corrispondere all’odierna forma restaurata della disciplina psichiatrica, mettendo così in risalto l’aspetto involuto e regressivo della sua prassi, l’opacità  della sua etica e la povertà del  suo statuto epistemologico.
Un testo che rilancia
l’opera di Sergio Piro
Riflessioni e testimonianze come quelle condensate nel testo di Di Petta, ri-aprono alla “cangianza” di cui ha scritto con profetica lungimiranza Sergio Piro, a cui va aggiunto l’ammonimento che fu già di Basaglia nell’imminenza della “180”: ” …guardate che i problemi ora sono ben altri…”.
Si trattava, e si ripropone oggi, di un’opera di civiltà  e di tensione etica, oltreché di conoscenza.
Piuttosto che di rassegnazione, è di una risignificazione che abbiamo bisogno: il testo di Di Petta ne è un eclatante esempio.
In una fase storica nella quale una sorta di “oscurantismo illuminista” sembra pervadere qualsiasi campo dell’esistente, e di questi quello psichiatrico è  tra i più colpiti da una profonda destrutturazione e involuzione grave ed evidente, sia nelle premesse politiche che nelle relative ricadute sociali, ovvero nella natura stessa della sua prassi e della sua sottostante epistemologia.
Del campo psichiatrico, sin dalle sue espressioni apicali, si coglie da tempo una sorta di movimento restauratore i cui orientamenti teorico-formativi e le relative prassi, sono tutte plasmate dalla logica sottostante a un codice a tre lettere, ” D S M ” il cui impianto statistico-probabilistico, definisce e caratterizza una parodistica scimmiottatura del sapere medico che, riferito alla disciplina psichiatrica, di fatto non esiste, risolvendosi piuttosto in una ambigua, incongrua e opacissima prassi terapeutica la cui deriva aporetica ci viene sempre più spesso restituita dalla cronaca mediatica.
L’intreccio disciplinare
e la caratura scientifica
Le implicazioni di tale situazione derivano dall’intreccio, del tutto ideologicamente strutturato, di discipline  con diversa “caratura scientifica ” e con diversa area di pertinenza, la cui commistione è stata resa possibile da un complesso sovrapporsi di problemi, in primis quello relativo alla supposta identità medica della disciplina psichiatrica e all’intreccio di problematiche socio-politiche di cui il “mandato sociale” della psichiatria resta il più evidente e controverso.
Poiché il punto archimedeo della  prassi e della teoria psichiatrica risulta cadere fuori dall’ambito medico, essendo collocato nell’ambito di saperi che vanno dalla filosofia, alle scienze sociali e all’antropologia, si è “costituito” un ibrido operativo che risulta dalla negazione della natura non medica della disciplina psichiatrica da parte dell’ambito accademico.
Di fatto, tale ibrido, come una sorta di Idra di Lerno, presenta le seguenti diramazioni problematiche:
– come sia possibile che gli operatori psi accettino ancora, dopo decenni, che i pz non abbiano alternative decenti all’istituzione, che vengano inviati in strutture, spessissimo private, stante lo stato da baraccopoli dei servizi;
– che gli SPDC (servizi psichiatrici di diagnosi e cura) pratichino normalmente la contenzione fisica;
– che i servizi riproducano logiche asfittiche e ambulatoriali;
– che le case farmaceutiche occultino i dati sperimentali sfavorevoli alle “psicomolecole” che tutti gli operatori somministrano.
– come mai, nel 2024, il pregiudizio, la miseria dei servizi, l’ignoranza da pensiero unico, caratterizzano la cultura delle istituzioni e dei servizi?
Ma la vera domanda, perturbante, che da qualche tempo aleggia nell’aria (… non so quanto nelle coscienze degli addetti ai lavori…) come uno spettro che si aggira nelle nostre vite è: cosa può essere definito scientifico e cosa va considerato non scientifico?…
È un interrogativo cruciale e attualissimo, che talvolta, come sappiamo, può persino assumere i tratti tragici della questione di vita o di morte.
Cosa è dunque scientifico e cosa no?…
Scientificità, ricerca
e tanti luoghi comuni
In effetti, l’università,  le istituzioni scientifiche, sono i luoghi storicamente deputati per tentare di rispondere a questa domanda fondamentale.
Fin dai tempi dell’accademia platonica, e ancor prima dell’avvento del metodo galileiano, l’università in particolare e il ruolo sempre maggiore svolto dalle società scientifiche, sono sempre stati i luoghi chiamati a svolgere questo delicato compito: cosa davvero possa essere definito scientifico e cosa no.
Come ci insegna l’epistemologia moderna, rispondere a questa domanda purtroppo è meno semplice di quanto vorremmo: non lo è perché all’interno stesso della comunità scientifica, all’interno della stessa cittadella  accademica, non sempre gli scienziati, i ricercatori, i clinici, sono d’accordo  su cosa possa definirsi scientifico e cosa no.
Anzi, il più delle volte si dibatte, anche aspramente, sugli strumenti, sulle tecniche, sulle teorie, sui programmi di ricerca, sui paradigmi generali della scienza.
Con buona pace di coloro e della loro implicita apologia dello scientismo spacciato per scienza normale, sussiste un dibattito continuo, accade in tutti i settori: matematici, fisici, economisti, chimici, medici, più raramente a dir la verità,  tra psichiatri, anzi, per dirla esattamente, tra “neurologi del mentale”, i quali concusso il modello neurobiologico e traslato in ambito psichiatrico, trovano, del tutto surrettiziamente, una base identitaria di tipo neurobiochimico al loro vuoto di identità medica.
Detto per inciso, per una riflessione che faccia ammenda anche dei vuoti di memoria storica e soprattutto metta in valore che certamente può essere lecito sbagliare nel giudizio, ma non giudicare non è lecito, il ” dopo Basaglia” significa un gigantesco ritorno del rimosso cui si risponde con una grottesca, stereotipata ecolalia  collettiva fatta di canovacci teorici scontati quando non obsoleti, perché il più delle volte del tutto difensivi in quanto denotano, perlopiù,  un’assenza di consapevolezza critica e un arroccamento ideologico che non denotano affatto un autentico dibattito.
E tuttavia, il dibattito, la critica, il dissenso tra addetti ai lavori, talvolta sembra suscitare un certo disagio, un imbarazzo  soprattutto quando diventa conclamato, pubblico.
Uno dei motivi è che per una sorta di deteriore paternalismo compiacente,  dinanzi alla pubblica opinione si sono un po’ nascosti i dissensi, lasciando intendere che “la scienza” ( …e quindi la “quasi-scienza psichiatrica”) fosse perennemente normale, consolidata e del tutto pacificata al suo interno.
Rischi delle modulazioni
burocratiche del pensiero
Ma si tratta di una pseudopacificazione somigliante piuttosto al “Giardino delle delizie” di H.Bosch, che a una reale e armonica visione delle cose: una pseudopacificazione realizzata in un immaginario paradiso riformato somigliante a un “pollaio che non ha spiragli né favole nuove da raccontare”.
Semmai, solo la ripetizione di quanto acquisito dall’omologazione del pensiero, burocraticamente modulato.
Forse tutto ciò è stato fatto perché si è  creduto che fosse l’unico modo per dare un’immagine della scienza che apparisse solida, forte e, in quanto tale, inattaccabile dalle cricche degli stregoni e degli impostori; forse si è pensato, ad esempio, che la quasi-scienza  psichiatrica, potesse essere pacificata dalla piena acquisizione e disponibilità  del “dispositivo biomedico”, e che ciò fosse l’unico modo per salvaguardare il popolo dalle blandizie di maghi, fattucchiere, antipsichiatri, eterodossi e quant’altro, dalla minaccia  sempre incombente di un nuovo pensiero magico, di un nuovo oscurantismo.
Tuttavia, l’avvento di un nuovo oscurantismo oggi è un rischio reale e una minaccia concreta, e tale minaccia ovviamente va combattuta.
C’è d’altra parte un problema, ed è  che questa “quasi-scienza psichiatrica”, di cui circola un’idea rassicurante, consolidata e pacificata, veicolata da una cittadella accademica senza conflitti, è falsa.
Ed è profondamente sbagliata: il motivo lo spiega , con grande chiarezza, Imre Lakatos: ” la storia della scienza è stata e dovrebbe essere una storia di programmi di ricerca, di paradigmi e pratiche in competizione tra loro: quanto più presto ciò accade tanto meglio  per il progresso”.
Lakatos ci ricorda che proprio il dibattito, la critica, la competizione tra metodi, tecniche di ricerca,  e gli inevitabili tentativi ed errori che ne conseguono, tutto questo dinamismo interno alla cittadella accademica rappresenta il vero motore del progresso scientifico che, come è evidente agli spiriti illuminati, non è affatto lineare, cumulativo e acquisito una volta per tutte: è invece accidentato, tortuoso, è fatto anche di cantonate e di ripensamenti.
In una società democratica moderna, un’opinione pubblica matura, queste cose debba saperle  bene e debba introiettarle come cultura condivisa.
Da ciò la necessità,  per le ragioni indicate da Lakatos, che si debba procedere a una riflessione pubblica che miri a questa consapevolezza: che la realtà  scientifica è complessa, che in accademia gli studiosi dibattono, che esprimono dissenso tra di loro, che entrano spesso in competizione, se non in conflitto, sui metodi e sui programmi di ricerca, che spesso si rinfacciano gli errori di cui la storia della scienza è costellata.
Cos’altro ha rappresentato, a partire dall’impianto kraepeliniano  e dalla logica manicomiale, il grande dissenso basagliana sul piano scientifico, giuridico, politico e culturale?
Cos’altro hanno significato i fondamentali apporti psicodinamico e fenomenologico sulla prospettiva di un nuovo, diverso  pensiero della cura che non si riducesse al mero professionismo il più delle volte povero di episteme e opaco nella sua etica?…
Tutto ciò dovremmo, o “avremmo dovuto?…”, spiegarlo non come un punto di debolezza della scienza, al contrario, come il vero motore del progresso scientifico.
In fin dei conti, il dibattito, questa critica interna alla cittadella accademica rappresenterebbe, ove criticamente ripresa, la prova della diversità  tra ciò  che è  scientifico e ciò che non lo è.
Sappiamo tutti che, oggi, salvo settarismi e corporativismi che nulla hanno di scientifico perché rispondono a logiche di potere, non si può più ripetere questo o quel dogma, che provenga dalla ” W.P.A.- word psychiatryc association”, dalla “A.P.A.-american psychiatryc association” , dalla S.I.P- società italiana di psichiatria”, o dalla ” S.P.I- società psicoanalitica italiana “, ovvero non è più possibile essere tolemaici e collegare l’esperienza immediata, quale quella drammatica odierna, con un vago, semplicistico sentimento pseudoriformistico o, peggio ancora, come un’occasione per regolare conti tra fazioni avverse , degne però di un fallimentare e grottesco scenario scespiriano.
Evitare la trappola
autoreferenziale
Sappiamo d’altra parte che è proprio nel mainstream  della coscienza sociale, inclusa la scienza, che si manifesta il degrado del presupposto fondamentale di ogni attività  teoretica, vale a dire la capacità  di collocarsi in una prospettiva virtuale esterna e di osservare la realtà  da un punto di vista che sappia finalmente fare a meno di parole passepartout,  salvo constatare, come è nell’evidenza dei fatti, una sorta di autoreferenzialità cui soggiacciono, per la più parte, gli odierni livelli apicali, istituzionali e politici.
Talvolta assumendo la forma della connivenza.
Se ci pensiamo bene, infatti, sono solo i maghi, le fattucchiere e gli imbonitori che non dibattono mai; gli stregoni non vanno avanti per tentativi ed errori, non perdono mai tempo con queste tremende ma necessarie pratiche della scienza.
È solo in tal modo, tuttavia, che si può creare una coscienza collettiva sui meccanismi reali con cui avviene il progresso scientifico: condividere collettivamente questa verità è l’unico modo per vaccinare il popolo contro il ritorno dell’oscurantismo.
Si tratta quindi di mettere in valore che il dibattito e il dissenso vanno disseppelliti e riconsiderati come basilare fenomenologia del progresso scientifico.
Ora, la questione scientifica, sottesa a  psichiatrica , implica il riconoscimento delle seguenti aporie:
– il rapporto psichiatria/diritto penale: è stato scritto che il diritto penale è una immoralità necessaria;
– che il mancato incontro tra filosofia/diritto penale/psichiatria connota l’odierna deriva della psichiatria;
– che l’evidenza di tale aporia è fenomenicamente rinvenibile, osservando le cose con spirito copernicano, negli effetti congiunti della collusione sistematica e strutturale degli odierni neurologi del mentale col dispositivo biomedico e, infine, nella collisione con i suoi stessi limiti interni, ossia epistemici, sociopolitici e quindi culturali, il cui perno “riduzionista” fa da albero di trasmissione della prassi odierna.
Si tratta, come è ben noto, di “marker politico-culturali”, e non certo “biologici”, ricorrendo ai quali si vorrebbe caratterizzare una acquisita, biochimica padronanza su una questione che invece è  perlomeno pluriproblematica e al di là  di una “velleitaria semeiotica medico psichiatrica” che si è potuta costituire, fino a farne una prassi, su una sorta di immaginario dominio a base recettoriale/molecolare  come ciò che strutturerebbe una “identità medica”  marcatamente indicizzato sui “distillati” dell’apparato industriale-farmaceutico.
L’insieme delle questioni  qui richiamate chiama in causa l’intera macrocategoria degli operatori psi, i quali dovrebbero riprendere, come autentico atto scientifico, la vessata questio relativa a quella sorta di  malcelata “scissione fondamentale” che attraversa da cima a fondo l’assetto teorico e prassico della disciplina psichiatrica.
Scissione identitaria
tra teoria e prassi
Assetto cui danno corpo , nel senso proprio di “corpo vivo” ( Leib)   ognuno di costoro, in azione (embedded), fino a una sorta di accordo “propriocettivo e muscolocinetico” degli uni con gli altri (enacted) per giungere a includere il campo della parola (embodied), nel senso di rifiutarsi di “assumere” (ovvero di “incarnarla a loro volta, vista la natura della loro prassi…) le questioni in essa implicate, piuttosto che ammantarsi di quella ipocrisia morale con la quale assurgono a vessilliferi di un “sapere fittizio”, del quale si  può concludere, parafrasando La Rochefoucaud, che essa è la concessione che il vizio rende alla virtù.
L’espressione corporativa , e dunque “ideologizzata” di tale scissione identitaria, si evince dalla adesione per incorporazione dei dettami della scienza naturalistica, ricorrendo ai quali si vorrebbe in tal modo legittimare, ritenendola acquisita, una “identità biomedica ” che di fatto, cioè scientificamente, non sussiste.
In tal senso, è sufficiente ricordare  che la cosiddetta “clinica dei neurologi del mentale” è fatta piuttosto di “colpi di vuoto epistemici”, tutt’al più soggettivamente esperiti quando non essenzialmente patiti.
La prassi li esperisce e la cronaca giornalistica ne restituisce la cifra drammatica quando non tragica.
Sicché  “povertà epistemica” e “occultamento di vuoto identitario” surrogato tramite mimesi disciplinare, costituiscono il nucleo problematico irrisolto della “quasi scienza psichiatrica”, con le sue fenomeniche incongruenze e ambiguità.
Tale nucleo centrale richiama inevitabilmente l’altrettanto complessa questione circa l’esistenza della psichiatria  come branca della medicina o, invece, nel momento in cui assume come oggetto della sua osservazione e del suo intervento aspetti sempre più lontani dalla medicina, essa cessi di esistere come “specialità medica” e incominci a esistere come qualcosa d’altro, di indefinito e probabilmente ancora da definire.
Salvo esserlo, la psichiatria, nel suo “pseudo essere”, in virtù  di un “consensus culturale” che assimila il campo psichiatrico a una “pratica medica”, ovvero salvo assumere il campo neurobiologico e costruire un neurobiologismo del mentale che è l’ossimoro a partire dal quale  si è costituita l’ambigua e opaca prassi odierna, cui si lega, indissolubilmente, il diagnosticismo  acritico e dilagante estratto da un codice a tre lettere, “DSM”, che codifica la virata in senso statistico-probabilistico, ateoretico ma “pharma- oriented”.
In tal modo, faustianamente, si tenta una definitiva scientificazione  della problematica fondamentale della quasi-scienza psichiatrica, ottenuta al prezzo  di una “ibridazione”, ovvero “neurologizzandosi” e quindi cessando di esistere come ” iatria della psiche” e risolversi come “neo- neurofrenologia”.
Si tratta insomma di indagare  non tanto questa sorta di “informe araba fenice” in cui consiste la forma della odierna metamorfosi psichiatrica, quanto piuttosto ciò che si annida nelle sue ceneri come “sostanza problematica”, dalle quali gli odierni propalatori,  come crescente numero di formiche con l’ossessione del contare e del dimostrare, ne annunciano i fasti come novelli vessilliferi che, lungo il loro corteo di irregimentati, fanno ali all’atteso  “Godot psichiatrico” .
Previous Story

«La verità scade ogni ora». Ecco Arminio riletto dalla D’Alessio

Next Story

Sartre, l’uomo mancante e la libertà come condanna