Giancarlo Siani, l’attualità di un sacrificio che insegna

Grazie a Netflix, che in questi giorni lo ripropone, è stato rilanciato il film di Marco Risi (2009) che racconta la tragica morte del giornalista del Mattino eliminato dalla camorra nel 1985. E la lettura che ne fa il regista con il bravissimo Libero De Rienzo, l’attore che impersona Siani, va nel profondo del fatto di cronaca locale. Lettura attualissima anche oggi che sono trascorsi quasi 40 anni da quei giorni.

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Si parlò poco, quando uscì nel 2009, del film di Marco Risi che racconta la tragica morte del giornalista del Mattino, Giancarlo Siani, avvenuta nel 1985. Forse perchè era la solita cronaca di un morto ammazzato per camorra, come altre che hanno funestato la nostra storia. O eravamo distratti. In fondo era un fatto locale, di provincia come altri, ed erano passati ormai anni.Eppure, il sottotitolo del film ci aveva ammoniti del contrario: 1985, Torre Annunziata, Napoli, Italia.

Grazie a Netflix, che in questi giorni lo ripropone, ho deciso di rivederlo. E la lettura che ne fa il regista con il bravissimo Libero De Rienzo, l’attore che impersona Siani, va nel profondo del fatto di cronaca locale. Lettura attualissima anche oggi che sono trascorsi quasi 40 anni da quei giorni.

Siani è stato ucciso a soli 26 anni dalla camorra per le sue inchieste sulle attività illecite della malavita organizzata. Risi lo segue nel suo percorso di formazione, nell’acquisizione della consapevolezza di vivere in un territorio torbido e corrotto, nella sua voglia di un riscatto che latita soprattutto tra i giovani. Quasi come in una sfida lacerante o si è da una parte o si è dall’altra, ma anche la parte giusta spesso è incline, per tornaconto o per paura, a stringere patti indecenti con i camorristi. Gli anni ‘80 sono un momento importante per il Sud perchè vi è il vero, forse irreversibile, salto di qualità della criminalità grazie ai fondi del dopo terremoto. Gli appalti truccati, i sub appalti di comodo, il voto di scambio, la droga lasciano una interminabile scia di sangue dietro tutto questo.Il Napoli e Maradona fanno da collante a questa realtà pavida che pretende di essere rappresentata nelle pagine del principale quotidiano del Sud in modo superficiale e folcloristico. Forse sono gli unici eroi visibili da tutti, osannati e ancora oggi vivi nel ricordo delle masse.

Il giornalista, quasi da solo, si immerge in queste contraddizioni sociali e culturali, le elabora e le racconta senza spirito eroico o slanci coraggiosi. Con la sua Citroen Mehari,  una macchina di plastica che sa di gita al mare, gira i vicoli della città, parla con la gente, con carabinieri e magistrati, con amici e nemici. Ci mette la testa e l’anima.Egli in fondo desidera fare solo il suo lavoro di onesto professionista della carta stampata. Gli si contrappone il suo caporedattore che, in un passaggio del film, offre una cinica ed attualissima considerazione sul loro mestiere. Con amarezza, lo spettatore apprende che in Italia vi è spazio solo per i giornalisti impiegati e non per i giornalisti giornalisti.

Qui si inizia a disvelare la chiave del film e la sua originalità. Partendo da Napoli, anzi da Torre Annunziata,si giunge all’intero paese e alla sua non integrità. Essa è accettata come ordinario modus vivendi all’interno della nostra società; essa si è anche radicalizzata con il passare del tempo.

L’aspetto singolare della vicenda umana di Giancarlo Siani è che non era un eroe ma una persona normale, come tanti altri che nel nostro paese sono stati uccisi. Non volevano cambiare il mondo che pure vedevano storto. Non volevano fare proseliti al proprio verbo per sollevare le masse.  Desideravano solamente fare il proprio lavoro. E’ questa ordinarietà che ancora spaventa a rivedere il film di Marco Risi, che si traduce nell’isolamento del diverso, nel suo distanziamento sociale e nell’ambiente di lavoro, tanto chi te lo fa fare. Ecco, così siamo tutti lentamente scivolati per davvero dentro Fortapàsc, accanto all’auto di Giancarlo. Ancora esiste ma non è una macchina storica è qualcosa altro, che ci interroga ogni volta che pensiamo a un giornalista napoletano di 26 anni che ha perso la vita al Vomero, Napoli, Italia. Non era in una zona di guerra ma sotto casa dei genitori, massacrato con otto colpi di pistola perché era un “bastardo”.

Gerardo Coppola

È stato nella carriera direttiva prima e in quella dirigenziale poi di Banca d’Italia, occupandosi delle funzioni istituzionali in campo bancario e finanziario. Oggi è scrittore, saggista e giornalista e segue numerose iniziative a carattere divulgativo e comunicativo. Nel 2017 ha fondato il blog www.economiaefinazaverde.it

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