Un’inchiesta del giornale israeliano Haaretz, pubblicata negli scorsi giorni, si intitola “I gazawi sono fuggiti dalle loro case. Non hanno un posto dove tornare”. Il sottotitolo riporta: “È incredibile: 1,7 milioni di palestinesi sono scappati dai bombardamenti di Israele su Gaza. La maggior parte delle loro case è stata danneggiata o distrutta”. Di fronte a questa realtà sono molteplici i dubbi che scaturiscono di fronte all’azione dell’esercito di Israele.
In questo contributo non mi soffermerò sulla storia della presenza dello Stato israeliano in Medio Oriente e sull’occupazione che esso attua almeno dal 1967 di una parte del territorio palestinese, come attestato dal fatto che in Cisgiordania ci sono non meno di – appunto – 700 mila coloni, né su altre questioni più generali relative alla resistenza palestinese. Mi concentrerò, invece, su alcune delle conseguenze della risposta militare israeliana alle azioni terroristiche del 7 ottobre e dei relativi rapimenti, le quali, con oltre 28 mila morti in 4 mesi, sono davanti agli occhi del mondo intero. Mi concentrerò, in particolare, sul tema dell’abitabilità, divenuto sempre più rilevante nell’ultimo decennio negli studi di ecologia politica, utilizzato, ad esempio, dal filofoso Achille Mbembe, che ne ha discusso in connessione con il diritto a respirare; dalla sociologia Saskia Sassen, che ha parlato, a questo proposito, di perdita di habitat; da altre studiose femministe per comprenderne il nesso con le migrazioni. E mi soffermerò su quanto la messa in discussione dell’abitabilità determini una condizione di pericolo non solo nel presente, ma nel medio-lungo periodo, per la vita umana.
Il concetto di abitabilità è stato definito nell’ambito dell’astrofisica, riconoscendo abitabile quel pianeta in cui le temperature sono ideali per la presenza di acqua liquida in superficie. Dunque, la presenza di acqua liquida è il fattore determinante per individuare un pianeta come abitabile. In altre parole, la vita non è possibile in assenza di acqua o di accesso a essa. Se la sua disponibilità è a rischio allora gli ambienti di vita diventano inabitabili, radicalmente ostili alla presenza di vita. La striscia di Gaza è una delle aree del pianeta Terra in cui questo rischio è incombente da almeno due decenni.
Nel 2015, il rapporto dell’UNCTAD (United Nations Conference on Trade and Development) sull’assistenza al popolo palestinese affermava che Gaza rischiava di diventare inabitabile entro il 2020 se le tendenze economiche registrate fossero state confermate. Il rapporto evidenziava: “oltre a otto anni di blocco economico, negli ultimi sei anni Gaza ha subito tre operazioni militari che hanno distrutto la sua capacità di esportare e produrre per il mercato interno, hanno devastato le sue infrastrutture già debilitate, non hanno lasciato tempo per la ricostruzione e la ripresa economica e hanno accelerato la riduzione dello sviluppo dei Territori Palestinesi Occupati, un processo attraverso il quale lo sviluppo non viene semplicemente ostacolato ma invertito”. Il rapporto evidenziava “le gravi crisi di Gaza legate all’acqua e all’elettricità, nonché la distruzione di infrastrutture vitali durante le operazioni militari di luglio e agosto 2014. Ad esempio, gli 1,8 milioni di abitanti di Gaza si affidano alle falde acquifere costiere come principale fonte di acqua dolce, ma il 95% di quest’acqua non è sicura da bere”.
Nel 2017 una ricerca condotta da tecnici in gestione delle acque confermava che “il 95% dell’acqua estratta è considerata non idonea al consumo umano”, mentre uno studio pubblicato da B’Tselem (“Il centro di informazione israeliano per i diritti umani nei territori occupati”) affermava che “la falda acquifera costiera, da cui i residenti di Gaza dipendono per l’acqua, è stata inquinata dal sovra-pompaggio e dalla contaminazione delle acque reflue, rendendo il 97% dell’acqua pompata da essa e fornita alle case non potabile. Poiché non ci sono altre fonti d’acqua disponibili, il pompaggio eccessivo continua e la falda acquifera è sull’orlo del collasso. I residenti non hanno altra scelta che ridurre il consumo di acqua e acquistare acqua desalinizzata da venditori privati. Tuttavia, si stima che il 68% di quest’acqua sia anche inquinata, aumentando il rischio di diffusione di malattie tra la popolazione”.
Nel 2018, il Relatore speciale sui diritti umani nei Territori palestinesi, Michael Lynk, aveva riconosciuto Gaza come “invivibile”, “con un’economia in caduta libera, il 70% di disoccupazione giovanile, l’acqua potabile ampiamente contaminata e un sistema sanitario al collasso”, insistendo affinché tutte le parti – in particolare Israele – ponessero fine a “questo disastro”.
Dopo il 7 ottobre 2023, il riferimento esplicito al concetto di abitabilità collegato agli effetti dell’azione militare israeliana a Gaza è stato fatto da Martin Griffiths, Sottosegretario generale per gli affari umanitari e coordinatore degli aiuti di emergenza delle Nazioni Unite. Agli inizi di gennaio 2024, egli ha dichiarato che “Gaza è diventata semplicemente inabitabile. I suoi abitanti sono testimoni di minacce quotidiane alla loro stessa esistenza, mentre il mondo sta a guardare. Alla comunità umanitaria è stata affidata la missione impossibile di sostenere più di due milioni di persone, anche se il suo personale viene ucciso e sfollato, mentre continuano i blackout delle comunicazioni, le strade sono danneggiate e i convogli vengono colpiti e le forniture commerciali vitali per la sopravvivenza sono quasi inesistenti”. Successivamente, è stata pubblicata l’inchiesta del quotidiano Haaretz, mentre, nel frattempo, si possono leggere titoli come questo: “Gaza non c’è più: metà delle case della Striscia sono inabitabili e la popolazione non sa più dove scappare” (un titolo del 10 febbraio 2024).
La condizione di inabitabilità perdura da tempo nella striscia di Gaza e si è accelerata in modo ulteriore con l’azione militare di Israele degli ultimi quattro mesi. Essa, dunque, non inizia nell’autunno del 2023, ma viene da lontano. È stato già evidenziato in alcuni rapporti qui riportati quanto l’inabitabilità si rafforzi nel tempo se non si interrompe l’insieme delle cause che la producono. Così come risulta evidente che, se tali cause non si fermano, le popolazioni non potranno mai riorganizzarsi per rendere abitabili i loro ambienti, a partire da un regolare e non pericoloso accesso all’acqua potabile: condizione che definisce, in quanto tale, l’abitabilità di un’area territoriale. La continuazione delle azioni militari non può che aggravare questa condizione e allontanare sempre più nel tempo la possibilità di invertire la tendenza. Di fronte a queste evidenze non è solo naturale porsi la domanda sull’accettabilità politica ed etica di quanto sta accadendo alla vita nella striscia di Gaza, ma è anche necessario chiedersi quali sono gli obiettivi del Governo di Israele e se tra questi rientri, in modo deliberato, rendere la striscia di Gaza inabitabile e, se fosse così, per quanto tempo e con quali costi sociali, ecologici ed economici, oltre che politici.