È sempre rischioso impelagarsi in temi di attualità complessi e iper-trattati: basta poco per cadere nel clichè e constatare che alla fine sarebbe stato meglio accantonare il progetto e trattare di altro, magari qualcosa di più lontano da noi o qualcosa di mai affrontato.
Matteo Garrone quest’anno decide di rischiare dando vita a Io capitano, un film sull’emigrazione clandestina che vede come protagonisti due giovani senegalesi che lasciano la propria terra per un futuro migliore in Italia.
Il cinema di Garrone sin dal suo ‘Primo amore’ è sempre stato un connubio di artigianalità e onirico e sorprende come anche in quest’ultima pellicola, se l’artigianalità sembra essere un requisito quasi necessario per dare una sfumatura neorealista e documentaristica alla pellicola (il film ha visto la presenza di più di 100 comparse tra Senegal e Marocco), la dimensione onirica, invece, è un tratto personalissimo dell’autore che rievoca il suo precedente ‘Pinocchio’ o il suo ‘Il racconto dei racconti’.
In effetti Io capitano sembra più un racconto di formazione in cui i due giovani senegalesi mossi da un ingenuo e fittizio European Dream iniziano un viaggio verso la terra promessa la cui natura infernale sarà scoperta con dolore e sorpresa man mano che ci si avvicina a destinazione. Proprio come in Pinocchio nel ventre della balena, Seydou nel carcere libico vive il rimpianto di non aver ascoltato la madre, un rimpianto che ha le sembianze di una fatina che ricorda la fata turchina del Pinocchio garroniano.
L’atmosfera incantata è evidente già dalle prime scene in cui ritroviamo un Senegal gioviale, unito, privo di conflitti interni in cui l’incoscienza dei due sedicenni non dà spazio a quella fetta di popolazione che consapevolmente sceglie di intraprendere un viaggio infernale per un ignoto al di là poiché non ha alternative. Garrone sacrifica un’impronta puramente documentaristica e testimoniale che incarnava in realtà la sua cifra stilistica soprattutto nei primi film per mettere in scena un film che è un tentativo ben riuscito di umanizzare il dramma dell’emigrazione clandestina, ma che forse non è l’esemplare migliore per riconoscere la sua sincera essenza.
Posto che il film alla fine risulti un vero pugno nello stomaco e tenga con il fiato sospeso fino alla consolatoria frase finale ‘Io capitano, Io capitano’, in realtà quest’angoscia e questo dolore derivano più dall’oggettiva tensione che provoca il tema affrontato e così mediatizzato. Ciò che però è interessante è che, forse per ansia di prestazione per un argomento così delicato e attuale, sembra che per ‘Io capitano’ Garrone non abbia svelato totalmente la sua reale dimensione stilistica, quella cruda, angosciante, grottesca, disturbante così evidente in altri film come Dogman, L’imbalsamatore, Gomorra ect.