Ma cosa è l’identità europea? Questa domanda, alla quale è molto difficile rispondere, viene rilanciata dalla rivista Quaderni Radicali che dedica l’intero, ultimo numero all’Europa, una nozione vaga, che nasce dal caos: i suoi confini infatti sono incerti, a geometria variabile, suscettibili di slittamenti, rotture, metamorfosi. Per gentile concessione della testata, pubblichiamo due interessanti testi del numero speciale, il primo a firma del direttore Geppy Rippa e il secondo del compianto Silvio Pergameno, fondatore con Pannella del Partito Radicale nonché sodale proprio dell’estensore del Manifesto di Ventotene, Altiero Spinelli.
di Geppy Rippa
“Se si cerca l’essenza dell’Europa non si trova che uno spirito europeo evanescente e asettico – scrive il filosofo e sociologo Edgar Morin nel suo libro Pensare l’Europa –, … se si crede di svelare la sua qualità più autentica, nello stesso momento si occulta una qualità contraria ma non meno europea; così, se l’Europa è il diritto, è anche la forza; se è la democrazia, è anche l’oppressione; se è la spiritualità, è anche la materialità; se è la misura, è anche l’hybris, l’eccesso; se è la ragione, è anche il mito, anche quello all’interno dell’idea di ragione. L’Europa è una nozione vaga, che nasce dal caos, i suoi confini sono incerti, a geometria variabile, suscettibili di slittamenti, rotture, metamorfosi…”.
Abbiamo coltivato per decenni l’immagine di un’idea dell’Europa, di una entità spirituale che conteneva la naturale proiezione dell’unità europea.
Il filosofo ceco Jan Patočka scriveva: “… dell’Europa si trascura la questione di sapere che cosa sia realmente e da dove è nata. noi vogliamo parlare dell’unificazione europea. ma l’Europa è qualcosa che si può unificare? si tratta di un concetto geografico o puramente politico? no! se vogliamo affrontare la questione della nostra situazione presente, dobbiamo comprendere che l’Europa è un concetto che si basa su fondamenti spirituali e così si capisce che cosa significa la domanda…”.
La letteratura intorno all’Europa ha continuato e continua, non senza però un fondamento reale, a ruotare intorno ad un concetto: non è una realtà geografica ma una realtà spirituale.
Dunque, è a questo spirito a cui bisognerebbe rifarsi per capire cosa è l’Europa: “… domandarsi che cosa sarà l’Europa domani – scriveva il filosofo tedesco Hans-Georg Gadamer – o cosa è oggi significa domandarsi come è diventata ciò che è…”.
Ma cosa è questa identità europea? Lo storico della filosofia Giovanni Reale nella introduzione del suo libro Radici culturali e spirituali dell’Europa premetteva che “… in primo luogo occorre tenere presente che non è una realtà identificabile con una espansione territoriale, in quanto ha avuto e continuerà ad avere confini mobili e labili, e non può dunque essere confusa con qualche realtà geografica. ma nell’Età moderna non è stata neppure una realtà politica, nel senso che non è stata una nazione e neppure uno stato con una sua unità politica…”.
Già, ma se non è una realtà politica e non è una realtà istituzionale, l’Europa moderna cos’è? Nel XX secolo è stata teatro di guerre mondiali drammatiche, fratricide, dalle conseguenze terribili che nella sua presunta identità spirituale l’hanno messa in crisi e quasi hanno annullato la sua esistenza.
Pertanto nella ricostruzione storica, filosofica, spirituale, siamo di fronte a una dicotomia che non fornisce una risposta alla domanda se l’Europa sarà capace, come istituzione, di rispondere alle inquietanti sfide che la realtà propone. il riferimento alle radici è costante, ma assume carattere vago se comparato alle urgenze dell’oggi.
“… È una nozione dai mille volti, che è impossibile vedere in sovrapposizione, gli uni sugli altri, senza creare un effetto sfocato. È una nozione con attitudine alle trasformazioni… – scrive ancora Edgar Morin – non ha unità se non nella sua molteplicità, e attraverso essa. Sono le interazioni tra popoli, culture, classi, stati che hanno intessuto una unità, essa stessa plurale e contraddittoria. L’Europa si è auto-costituita in un caos originario in cui sono annodate insieme le potenze dell’ordine, del disordine e dell’organizzazione. Fino all’inizio del secolo XX, non esiste che nelle divisioni, negli antagonismi e nei conflitti che, in un certo modo, l’hanno prodotta e preservata…”.
Viene da chiedersi se queste specificità ritenute significative non contengano anche quegli effetti devastanti che si sono manifestati nel dramma della prima e soprattutto seconda guerra mondiale e che pongono dubbi sulla stessa idea dell’Europa in un tempo in cui la mancanza di un Nuovo ordine mondiale potrebbe comportare catastrofiche conseguenze proprio per i popoli europei.
Insomma, se il collante intellettuale che ha dato vita alla cultura filosofica, creatrice di un modello teoretico e fondante di una cultura scientifica e tecnica, su cui si basa l’impostazione di uno spirito europeo non è accompagnato oggi da un modello politico-istituzionale in grado di affrontare le evoluzioni del nostro tempo e i suoi inquietanti sviluppi, gli effetti potrebbero essere catastrofici e deflagrare nello scenario dell’intero pianeta.
Lo storico Federico Chabod, il cui metodo ribadiva come bisogna prendere conoscenza di più fonti possibili per poterle confrontare, sottolineava che “… nel formarsi del concetto d’Europa e del sentimento europeo, i fattori culturali e morali hanno avuto preminenza assoluta, anzi esclusiva…”. E questo vale come strumento decisivo per descrivere la frattura esistente tra le azioni politiche che sarebbero necessarie e il quadro complessivo, soprattutto istituzionale, in grado di poterle realizzare.
Inadeguatezze interne e scenario internazionale, definito in un conflitto sempre più evidente e aggressivo, tra democrazie fragili e sistemi autoritari che sono annidati dietro una domanda di generico multipolarismo non meglio definito, rendono drammatica la situazione e confermano quanto l’Unione Europea sia priva di capacità interpretative sui fenomeni, ma soprattutto di volontà politica ad approntare istituzioni in grado di affrontarle.
“Gli stati e i cittadini europei sono diventati maestri nel mettere la testa sotto la sabbia…” – scrive Roberto Castaldi, professore associato di Filosofia politica.
Dopo oltre due anni dall’invasione russa dell’Ucraina continuiamo a invocare la pace sperando nell’azione diplomatica e mediatrice della Turchia, o della Cina, o del Vaticano, o di chiunque tranne noi.
Il pogrom del 7 ottobre 2023, con il successivo drammatico intervento di Israele a Gaza, le migliaia di morti, l’incapacità di analisi politiche di quello che sta accadendo rivela quanto l’Europa non sia in grado di esprimere una propria politica estera, non sia in grado di giocare nessun ruolo nei confronti di questi avvenimenti.
“Abbiamo partiti disperatamente aggrappati ai rispettivi contesti nazionali, a calcoli di breve termine, dettati dalla paura di provocare un pericoloso malcontento negli elettori e quindi perdere voti a favore di avversari populisti…”, scrive il sociologo politico Claus Offe, che – pur essendo di una cultura marxista che non è la nostra – sottolinea come la classe politica, in generale e in Europa in particolare, può permettersi di essere apparente- mente coerente quando più è lontana da responsabilità di governo.
Le “famiglie politiche europee” (popolari, socialdemocratici, più gli spezzoni liberali), con la loro mancanza di visione, hanno appunto aperto la strada ai nazionalismi e ai populismi, generando i presupposti di una deriva.
È la deriva di quella paralisi che viviamo e che Michele Salvati descriveva come il dilemma tra asfissia e catastrofe. Ma di chi è la responsabilità di questa situazione? Certamente degli attori in campo, dell’attuale Unione Europea e delle sue farfuglianti, dispersive e in alcuni casi surreali regole di governance, dei suoi membri, di sinistra e di destra, quelli più forti e quelli più deboli.
Ma come si è prodotto l’attuale assetto istituzionale dell’Europa? Come si è potuto arrivare a quella totale assenza di attenzione che ha piegato, da un punto di vista economico, sociale e culturale l’unione?
Se oggi i cittadini europei percepiscono l’Europa come una comunità dai destini incerti e non come la Patria che consenta loro di controllare e indirizzare il proprio destino dovrebbe far riflettere che nel suo stato attuale l’UE si è rivelata incapace e non attrezzata per affrontare economicamente, istituzionalmente, politicamente i problemi che abbiamo di fronte. E ancor di più questo è grave se si considera quello che il mondo vive, le inquietanti proiezioni di guerra, gli squilibri che vive (riguardanti non solo l’aggressione russa in Ucraina e il conflitto mediorientale tra Hamas e Israele).
Gli scenari che molto spesso vengono raccontati non comprendono le terribili e rischiosissime vicende asiatiche, le crescenti tensioni tra Cina, India, Filippine, Vietnam per non parlare di Giappone, Australia e più specificatamente riferite alle possibili aggressioni che Pechino potrebbe mettere in campo nel Pacifico…
Si usa ripetutamente il termine riforme, ma così come sono impostate danno la sensazione di un contesto che prefigura solo un maggiore e più deprimente scenario.
Come non avvertire il richiamo di Marco Pannella, che conversando con «Quaderni Radicali» sul suo rapporto con Altiero Spinelli poco prima della morte dell’autore, insieme a Ernesto Rossi e Eugenio Colorni, del Manifesto di Ventotene, ne raccontava il suo scoramento, il suo pessimismo, che nasceva dalla lettura critica che faceva dei trattati e del modo in cui venivano elaborati (Maastricht, che fissava le regole politiche e i parametri economici che erano necessari per l’ingresso degli stati aderenti alla unione; Amsterdam del 1999 che doveva rafforzare l’unione politica dell’Europa in particolare in materia di libertà, giustizia, sicurezza, comune politica estera, trattato che incredibilmente non interviene sul suo sistema istituzionale).
Ecco qui è la traccia a cui occorre riferirsi se si vuole costruire una prospettiva di uscita alla crisi che attanaglia l’Europa.
La disgrazia – sottolineava ancora Le Goff – è di aver maturato a lungo dei nazionalismi soffocati, oggi anacronistici per non essersi potuti far sentire nello stesso momento degli altri.
Ecco dunque la malattia che attraversa l’Europa moderna: il continente è devastato da una Europa delle nazioni che sfocia nei nazionalismi senza sbocco, senza che si lavori con irreversibile urgenza per una Europa unita, in chiave federalista.
L’assenza – che è conseguenza delle politiche delle mancate attuazioni delle riforme strutturali necessarie – di élite politiche illuminate, ha prodotto l’inseguimento di consensi di opinioni pubbliche che non sono informate e messe a conoscenza dello stato delle cose e delle loro conseguenze.
Nel caso italiano, per limitarci alla nostra sempre più marginale realtà, la conferma è nella incespicante e mediocre campagna di selezione dei candidati per il parlamento di Strasburgo. Da sinistra a destra si brancola nel buio, attraverso scelte inadeguate e poco consapevoli della profondità della crisi che ha raggiunto un livello tale da minacciare una sia pur fragile e presunta democrazia. C’è poi chi si barcamena in raggruppamenti che poco contengono la forza di Ventotene e pensano di mettersi la medaglietta di un federalismo europeo mai praticato e poco credibile.
“… Purtroppo sono stati annullati tutti i nuclei di pensiero che provengono da una cultura liberale, laica, libertaria – ribadiva Pannella nella intervista richiamata – … siamo bloccati da una sinistra che ha accettato solo logiche corporative, senza regole e una destra che, lo dice la parola, è naturalmente corporativa…”.
Resta dunque da ribadire che bisogna lottare per i diritti umani e conquistare lo stato di diritto.
“… Battersi contro il degrado della democrazia reale con il ritorno alla Ragion di Stato, di quella scuola realista che nutrendosi di pregiudizio antropologico e ideologico ci ha trascinato solo in gran- di tragedie…”.
Seminare prevede tempi lunghi e non si sa se abbiamo il tempo, ma è l’unico modo per prepara- re il cambiamento. non bisogna temere di proiettarsi oltre, anche se un sistema informativo corro- so impedisce la conoscenza. i drammatici scenari globali non lasciano possibilità e forse l’unione è in grave ritardo per compiere la scelta che serve… per questo è necessario che si faccia punto e a capo!
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Il crocevia del voto europeo
Dieci anni or sono, alla vigilia delle elezioni europee del 2014, Silvio Pergameno affidava alle pagine del n. 110 di «Quaderni Radicali» un corposo saggio dove affrontava le opacità sul futuro dell’Europa. Lo scritto tracciava un ampio excursus storico, che muoveva dall’Ottocento per approdare ai nostri giorni, soffermandosi in particolare sul ruolo giocato dalle due massime nazioni continentali: Francia e Germania.
Protagoniste del duopolio che di fatto condiziona l’attuale UE, nelle loro scelte strategiche risiedono tanto le cause dell’impasse irrisolto in cui si trova oggi l’idea di dar vita a un’Europa che sia esempio di libertà e civiltà, quanto le opportunità di realizzare un rilancio del progetto ideale elaborato alla fine della Seconda guerra mondiale nel Manifesto di Ventotene.
Dal Manifesto di Ventotene prendono le mosse gli estratti che qui proponiamo del saggio di Silvio Pergameno che, va ricordato, oltre che tra i fondatori del Partito radicale con Marco Pannella, fu sodale proprio del suo più noto estensore: Altiero Spinelli. È quanto mai interessante notare come, nonostante il tempo trascorso, le considerazioni riportate nell’articolo di dieci anni fa conservino intatta la loro validità – sia in riferimento alla debolezza della opzione sovranista, sia alle criticità di cui è portatrice una Germania lacerata dall’incertezza – e come le parole sull’Ucraina illuminino, meglio di tanti odierni interventi, le caratteristiche del tormentato conflitto in corso.
Con il testo che segue, suddiviso in paragrafi titolati, la redazione di «Quaderni Radicali» rende un doveroso ricordo allo storico collaboratore della rivista, dolorosamente scomparso nel dicembre 2020.
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Il Manifesto di Ventotene
di Silvio Pergameno
[nel 1941 Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi elaborarono] il progetto di un manifesto “Per un’Europa libera e unita”, poi pubblicato clandestinamente nel gennaio del 1944 da Eugenio Colorni, altro confinato, trucidato a Roma da fascisti pochi giorni prima della liberazione della città, che ne aveva redatto la prefazione, sottolineando le due premesse che avevano ispirato i redattori del testo: il fatto che le guerre nascono dalle rivalità tra stati e la chiaroveggente considerazione che i partiti della sinistra, nel dopoguerra, avrebbero proseguito la loro lotta nell’ambito nazionale.
La tesi di fondo del Manifesto è invece che la democrazia non si salva negli stati nazionali (al tempo in cui fu scritto, la libertà era scomparsa in tutta Europa, compresa la Francia) con il corollario che, appena finita la guerra con la sconfitta della Germania, ci sarebbe stato un breve periodo di tempo per evitare che la ricostruzione postbellica degli stati nazionali distrutti dal conflitto avvenisse su scala nazionale, nel cui ambito avrebbero ripreso il sopravvento le forze della conservazione reazionaria, insediate nelle istituzioni […].
Le analisi del manifesto sono eccezionali: le considerazioni di fondo (benché appena abbozzate) hanno trovato piena conferma, anche se poi il corso degli eventi ha portato dei correttivi.
E soprattutto il Manifesto presenta due aspetti di massimo rilievo: il primo sta nel rovesciamento del legame tradizionale tra stato nazionale e democrazia (tutte le costituzioni sono fondate su questo principio e il giacobinismo francese ci crede ancora) e nella denuncia di un ruolo mortale che gli stati svolgono sulla democrazia; la seconda è che si tratta proprio di un “manifesto” e non di un “progetto” più o meno perfetto, di una costituzione da far venire in essere, anche se non si sa bene come. il Manifesto di Ventotene è l’espressione di un impegno politico militante, di sinistra e per la sinistra, per coinvolgerla in un problema che le è proprio e che, se non viene affrontato e risolto, inesorabilmente finisce per snaturarla, come in effetti è successo e come succede ancora oggi: oggi i tempi cambiati obbligano a comprenderlo. […]
La lacerazione della Germania dopo L’Euro
[…] chi viaggia oggi in Germania non percepisce sentimenti revanscisti, segni di militarismo feroce, orgoglioso ed ottuso, o di un culto ossessivo delle memorie, affidato a bellicose volontà di potenza. avverte invece una Germania guidata da una classe politica lontana da gloriose imprese e da avventure militari, con uno stato di diritto fondato su una costituzione democratica avanzata, che codifica i diritti fondamentali e – in base a una recente aggiunta – anche il legame con l’unione europea […].
La Germania di oggi è una Repubblica unitaria (non federale) con larghe autonomie regionali accortamente raccordate con le istituzioni centrali. i länder non fruiscono che in misura modestissima di proprio potere legislativo, che è riservato al parlamento centrale, composto del Bundestag (dieta o camera federale) – eletto con sistema proporzionale e sbarramento del 5% – e del Bundesrat (camera dei Länder), composto di delegati, nominati dai länder in numero da tre a sei a seconda della popolazione, e che però deve approvare a maggioranza assoluta solo le leggi più importanti. […]
Il sistema ha subito un notevole contraccolpo con il crollo del muro di Berlino e la successiva riunificazione, quando dall’Est è arrivato il partito di Gregor Gysi, la Sozialistische Partei Deutschlands erede della SED (Sozialistische Einheitspartei Deutschlands, cioè del partito comunista, scomparso alla fine del 1989). La SED è quindi confluita nella nuova linke di Oskar Lafontaine, scissionista dalla socialdemocrazia, che ha perduto il potere di mediazione interna e si è così trovata un avversario sul fianco sinistro. […]
Il 9 novembre 1989 crollava il muro di Berlino e una folla di berlinesi dell’est si riversava nella parte ovest della città; le autorità della Repubblica democratica tedesca restavano passive, si perdevano tra le pieghe delle burocrazie, il ministro competente era fuori sede e il crollo poi avveniva in un contesto di eventi significativi: Solidarnosc e il rivolgimento polacco, gli ungheresi in fuga oltre confine.
Era ormai chiaro che l’URSS non ce la faceva più e infatti in breve il regime comunista crolla. non cade soltanto il muro, cambia radicalmente il quadro geopolitico del dopoguerra: finiscono la divisione della Germania e quella del mondo in due blocchi e con esse la tutela delle due superpotenze; si avvia la globalizzazione del mercato, con miliardi di nuovi soggetti che producono, importano, esportano. L’Europa si avvia su una nuova strada […].
Il progetto europeo resta in vita e anzi tende a consolidarsi, proprio con la creazione della moneta unica, un fatto ricco di contraddizioni, ma sostanziale per capire la storia di questi giorni e i limiti entro i quali le contese interne debbono essere contenute. […] la Germania non intendeva cedere sul marco, che era stato lo strumento monetario del miracolo economico e della ricostruzione di una Germania forte, in quanto governato da una politica economica e finanziaria che aveva reso possibili questi esiti. Alla fine l’accordo fu raggiunto con la creazione di una moneta (l’euro) governata da principi voluti dalla Germania e sanciti nel trattato di Maastricht: la stabilità monetaria e il pareggio dei bilanci degli stati firmatari.
Il paradosso sta nel fatto che si tratta di una moneta senza governo, in tempi nei quali la politica monetaria è fondamentale. La Germania allora assume di fatto la funzione di cane da guardia della moneta europea. Questo è l’assurdo che oggi abbiamo davanti: se abbiamo una moneta unica non si può non avere un governo unico. Centinaia di milioni di europei non possono restare soggetti a un potere sul quale non hanno alcuna possibilità di influire.
I nazionalisti sostengono l’uscita dall’euro e ad essi si affiancano le resistenze corporative incrostate nelle varie forme sindacali, padronali, degli ordini professionali e da tutta quell’infinita congerie di protezioni settoriali, dietro le quali poi prosperano in alcuni paesi, nel nostro in particolare, le forme di corruzione più indegne. ma non è questo il problema più grosso: la vera sciagura sarebbe l’uscita dall’euro, che esporrebbe i paesi deboli e indifesi, in primo luogo l’Italia e la Francia, a una concorrenza internazionale spietata, da parte di paesi che all’interno non hanno problemi di diritti umani e sociali e che non si farebbero nessun problema di assoggettare al proprio carro belle fette della vecchia Europa.
[…] è su questo panorama che si apre il nuovo problema Germania; e non soltanto sul campo economico e monetario, perché la Germania sta facendo di testa sua anche la sua politica orientale (la sua nuova Ostpolitik) e in particolare ha costruito un suo sistema di relazioni con la Russia post-comunista.
È ben chiaro che la Russia rappresenta il punto interrogativo della situazione europea. La Russia è un pezzo di Europa che si estende su tutta la parte settentrionale dell’Asia fino a lambire la punta nord-orientale degli stati uniti in Alaska. Essa mira a ricostituirsi un ruolo di potenza mondiale […] oggi essa ha in mano, grazie anche a una politica tedesca che non può che suscitare molti interrogativi, le chiavi dell’energia in Europa: non possiamo liquidare i nostri rapporti con i russi, anche se è vero che loro non possono liquidare i rapporti con noi, che, acquistando il loro gas, li riforniamo di cospicue risorse finanziarie […].
Il dato saliente in questo quadro sta però nel fatto che la Germania si è assunta il compito di sostenere la modernizzazione della Russia e che ai vertici di Gazprom siede quel Gerard Schröder, già ai vertici della socialdemocrazia tedesca e capo del governo tedesco per sette anni (dal 1998 al 2005) e dal quale in occasione della recente crisi ucraina non abbiamo sentito battere un colpo.
Quale strada possa prendere la Russia non lo sappiamo; non sappiamo quanto una Russia rifortificata possa condizionare la Germania; sappiamo però che in prospettiva abbiamo bisogno della Russia e che soltanto un’Europa unita e forte può guidare una politica democratica e dei diritti civili verso il Cremlino. Senza considerare il fatto che in questo quadro si inserisce il resto dei problemi del tempo e dello spazio politico europeo: la Turchia, il mondo musulmano, il medio oriente, l’Asia centrale, il Caucaso, il problema mondiale dell’energia.
Né si può trascurare il fatto che sta nascendo in Germania un movimento politico nettamente antieuropeo, quell’ “Alternative für Deutschland”, movimento di destra conservatrice, sostenuto da economisti, giuristi, professionisti, non animato da nostalgie di matrice nazista, e proprio per questo assai pericoloso. “AFD” avanza una proposta con- notata prevalentemente da una ferma opposizione al processo di integrazione europea, da ridurre nel- l’ambito di un mercato comune europeo e in una posizione di amicizia verso gli altri stati, ma lasciando loro piena sovranità, senza trasferimenti di poteri e di controlli a organismi sovranazionali. chiaramente la strada per imporre di fatto l’egemonia tedesca. […]
La Germania allora deve decidersi ad assumere la leadership di un’Europa unita, ma tuttora da unificare. solo che, angosciata dal proprio passato, essa appare quanto mai restia a compiere passi decisivi, soprattutto per il fatto che l’altro paese che in Europa ricopre un ruolo determinante – la Francia – resta invischiata sui residui di un passato che non riesce a lasciarsi alle spalle. tutti temi centrali per il prossimo voto europeo.
Risentimenti europei e tentazioni sovraniste francesi
Ma torniamo all’euro e alla ribellione contro l’euro, che naturalmente non è priva di motivazioni. dobbiamo subito osservare che il dato saliente dell’odierno panorama europeo è rappresentato dalla circostanza che il malcontento nei confronti dell’euro si proietta automaticamente sulla Germania, che, non soltanto è il paese di gran lunga più forte dell’unione, ma presenta anche dei caratteri particolari, che hanno grandissima rilevanza. […]
Grande merito della Germania e soprattutto della socialdemocrazia tedesca è di aver riformato lo stato sociale nei primi anni duemila, rimettendo il paese in carreggiata, anche con l’aiuto dell’Europa, dopo le enormi spese sostenute per la riunificazione. Gerard Schröder ha realizzato il suo piano in accordo con i sindacati, anche se poi ha subito la scissione della “Linke”. Ma soprattutto la Germania, forte del suo peso e delle clausole dei patti di Maastricht e di Lisbona, impone a tutta l’Europa una politica di rigore finanziario e di pareggio di bilancio, che risulta pesante per i paesi fortemente indebitati. Insopprimibile, quindi, la tentazione dei partiti e soprattutto dei movimenti di stampo populistico di attribuire la colpa dei guai presenti alla Germania, per rilanciare la politica di deficit spending seguita nel passato e con la quale poi non è che si sono finanziati investimenti produttivi, o la ricerca scientifica e tecnologica, o provvedimenti per temperare le conseguenze delle necessarie riforme in materia di relazioni industriali o un’intelligente politica ecologica. La politica di spesa facile è stata carattere essenziale di tanti stati sociali fin troppo generosi (non la Germania), di gestioni senza rigore finanziario e di quella finanza allegra che ha alimentato un clima di deresponsabilizzazione generale e ha favorito il diffondersi abnorme della corruzione. […]
Ma non c’è poi soltanto il vincolo dei patti. I paesi che hanno forti deficit di bilancio sono costretti a coprire le spese con l’emissione di titoli del debito pubblico a varie scadenze; e specialmente i titoli a scadenze più lontane sono minacciati dal rischio che gli stati non ce la facciano più a saldare i debiti, come stava succedendo in Grecia, senza le misure adottate dall’unione che hanno sì salva- to dal fallimento, ma al prezzo di sacrifici molto duri.
Di fatto quindi la Germania impone una politica monetaria restrittiva che rende più scarsa la liquidità e quindi il finanziamento della produzione: il prodotto interno si contrae, aumenta la disoccupazione, diminuiscono i redditi, si assottiglia la base della tassazione, lo stato rischia minori entrate e quindi aumenta le aliquote dei redditi tassabili e le altre imposte, sottraendo le disponibilità finanziarie alla produzione e al consumo… un gatto che si morde la coda. La Banca centrale Europea sarebbe pronta ad adottare una politica finanziaria più aperta, ma il peso delle resistenze soprattutto tedesche continua a frenarla.
Ecco allora il risentimento verso la Germania, al quale si uniscono i ricordi del passato e la politica di Berlino sospettata di voler rilanciare la Germania alla conquista dell’Europa, questa volta non con le armi, ma con gli strumenti dell’economia e della finanza. sarà così? […] Sono veramente ben motivate allora le accuse che oggi si rivolgono a Berlino? E in queste condizioni ha un senso restare affezionati al progetto europeo, ammesso che ne esista ancora uno? E cosa risponde la Germania? Qual è il panorama politico tedesco?
E qual è il ruolo che in tutto questo bailamme gioca la Francia, che, non va dimenticato, nel contesto dell’Europa continentale, ha, o dovrebbe avere, il peso maggiore, proprio perché le democrazie dei paesi che rientrano in questo contesto sono tutte di origine e di stampo francese, perché nella tradizione politica francese c’è la consapevolezza del governare al livello di responsabilità mondiali, perché la Francia è il paese che ha subito il peso maggiore delle tre invasioni tedesche (1870, 1914 e 1940) ed è stata la maggior potenza del continente fino all’arrivo della Germania e non per mero caso conserva tuttora un seggio permanente nel consiglio di sicurezza dell’ONU. […]
Il dato saliente che però si riscontra nella Francia attuale è quello della crescita del Front National, sotto la guida di Marine Le Pen, figlia di Jean Marie, fondatore (nel 1972) del movimento sulle basi di una politica di estrema destra, con forti riferimenti a nostalgie del passato, compreso quello di Vichy, connotato anche da inclinazioni razziste, avversario dell’immigrazione extraeuropea, fautore della pena di morte e dell’uscita dall’unione europea o quanto meno di una forte riduzione dei lega- mi con Bruxelles e Strasburgo.
Marine Le Pen ha iniettato una forte dose di innovazioni al Front, non tanto negli obbiettivi so- stanziali, quanto nelle forme e nelle modalità di presentazione; ha abbandonato le nostalgie del passato e gli estremismi, fornisce l’immagine di un possibile partito di governo, critica l’immigrazione non tanto scagliandosi contro l’immigrato, che anzi viene considerato uno sfruttato, ma in quanto la presenza di una forte componente di “stranieri” intacca l’identità francese […].
Marine Le Pen ha poi compiuto un vero salto di qualità in materia di diritti civili, posizioni sull’aborto, il divorzio, gli omosessuali ed è riuscita a innestare in una chiave nazionalistica e sciovinistica il grande disagio economico sociale determinato dalla crisi, le cui cause vengono abilmente dirottate sulle misure adottate dal governo Sarkozy prima, ma dalle quali anche Hollande non sembra molto discostarsi. […]
Le ricette del Front National sono quelle usuali: protezionismo, interventi dello stato, dirigismo, provvedimenti per evitare che le imprese si spostino all’estero, misure contro la flessibilità del lavoro: il tutto peraltro declinato in chiave nazionalistica, che comunque incontra e sollecita l’interesse della classe operaia e di ceti borghesi (in particolare commercianti e piccole imprese), che non soltanto sono le vittime più colpite dalla crisi, ma hanno perduto la fiducia nei sindacati (per i quali è crollato il tesseramento) e dei partiti della sinistra. accade così oggi che il voto operaio si rivolga soprattutto al Front national, che il PCF ottenga esiti elettorali modestissimi (sotto il 5%) e che i socialisti perdano credibilità, anche perché gravati dal peso di un europeismo, alle cui misure di austerità viene attribuita la colpa soprattutto della mancata ripresa.
Che sia un movimento di destra a schierarsi sulle posizioni innanzi tratteggiate non deve stupire, perché proprio la storia del secolo passato ha già fornito ampia e tragica testimonianza di una destra costruita sulla base di un capitalismo profondamente finalizzato, statalista e programmatore, ma animato non tanto da un’esigenza di riscatto sul terreno dei diritti umani, quanto da un nazionalismo razzista portato alle estreme conseguenze: la Germania di Hitler. E senza dimenticare che nella Russia diventata unione sovietica la componente nazionalista e di politica di potenza è stata una componente essenziale del regime, una com- ponente che riveste un peso determinante anche nella Russia post sovietica di Vladimir Putin, perché in essa il nuovo regime trova un determinante strumento di consenso, soprattutto nei ceti borghesi.
La Francia continua quindi a rivelarsi un paese fin troppo preoccupato per la propria identità, la propria sovranità (ma quanta, in realtà?), la propria missione mondiale, la propria grandeur, la gloria nazionale… la nazione rivoluzionaria del 1789 è diventata nazionalista!
Ma è una strada sbagliata, nella quale la nation naufraga in una contraddizione insanabile che mina alla base il ruolo della tradizione illuminista, vivissima nel nostro vicino di casa. nella cornice nazionale un attaccamento morboso all’identité finisce per ridurre Cartesio, Voltaire, Montesquieu (che dell’identité sono certamente parte integrante) a corifei di una battaglia contro povere ragazze islamiche che vogliono andare a scuola con il velo, o contro un povero prete di campagna che va all’ufficio anagrafe del comune per un certificato in cotta e stola perché non ha i soldi per comprarsi il clergyman: una battaglia combattuta a forza di decreti, di imposizioni, di provvedimenti di polizia…
La Francia che amiamo ha invece un’enorme battaglia da combattere in Europa: costruire con la Germania e come mentore di Berlino un continente unito e rinnovato, dove popoli e nazioni e tante identità salvino un patrimonio di tutti e un destino comune, altrimenti minacciati di rapida estinzione. […]
Il dramma dell’Ucraina
[…] la rivolta popolare in Ucraina, che anela a entrare in Europa, la richiesta di un popolo esasperato, che non riesce a liberarsi dai “Russi”, zaristi, sovietici, putiniani… dei ricordi dei milioni di culachi sterminati nelle purghe e delle mille vessazioni subite. ne conosciamo tanti e una cosa ci colpisce: se si parla di angherie e prevaricazioni e di sopraffazioni dalle loro labbra, anche quando ci si riferisce al periodo più terribile quello stalinista – non esce mai la parola “comunista”, si parla sempre di “Russi”…
Quale potrà essere la risposta europea alle angosciose domande degli ucraini in rivolta? Tenendo conto che dietro Yanucovich si erge il convitato di pietra che siede al Cremlino e tiene nelle mani i rubinetti dell’energia non solo per l’ucraina ma per tutta l’Europa? Gli europei hanno promesso un aiuto economico non certo di dimensioni esaltanti, ma comunque i soldi pare non ci siano…
Discorso che poi si allarga a tutta la questione del Caucaso, attraverso il quale non passano soltanto i gasdotti per l’Europa del sud con coinvolgi- mento ad altissimo livello della Germania (e direttamente di Gerhard Schröder, che è anche presidente proprio di south stream), ma che è anche la zona su cui convergono per gli approvvigionamenti di materie prime la Cina e l’India e gli stesi stati uniti.
Tutto questo anche per osservare che la storia dei diritti umani finisce col passare costantemente e forse principalmente proprio attraverso la cosiddetta politica estera, come l’atroce testimonianza delle guerre, interne e non soltanto esterne, con- ferma nella sua sconfinata tragicità. L’Ucraina oggi conferma…