Nulla di più adeguato per parlare di letteratura testimoniale che analizzare questo testo, dichiaratamente letterario, dedicato a una vittima simbolo della lotta della magistratura contro le violenze mafiose: Paolo Borsellino, riportando quindi il termine testimonianza nel suo luogo d’elezione, un’aula di tribunale e il Consiglio Superiore della Magistratura.
La letteratura testimoniale, di auspicata ricezione semi-referenziale, infatti, costituisce un continuum, senza fratture oggettivamente individuabili, che, dopo e al di là della testimonianza ‘tecnica’, si fa articolo giornalistico, letteratura testimoniale, scrittura saggistica, fino a sfociare nella fiction basata su un fatto reale: nel mezzo, un magma di testi su cui lettori e critici esercitano inutilmente le proprie capacità investigative giacché si tratta di una famiglia testuale che rifiuta classificazioni ed etichette poiché nasce sul campo, in momenti di emergenza, ed è la situazione contingente che impone le sue leggi. Accanto a opere facilmente riconoscibili come letteratura testimoniale – un sopravvissuto che narra in prima persona, e in nome di chi non si è salvato, un evento tragico, una strage, un genocidio – troviamo molteplici testi che, in diverse gradazioni, registri e forme, rispondono a quei requisiti ma incastrati in un impianto finzionale che mette in crisi l’orizzonte d’attesa del lettore. Un passo più in là e ci troviamo nel campo della letteratura testimoniale di seconda mano e di evidente costruzione finzionale, di chi raccoglie testimonianze, ricordi e racconti del testimone e li ‘ricrea’ artisticamente, dando loro forma, coerenza e significato più ampio, come voce collettiva.
Non è possibile, naturalmente, banalizzare le relazioni, interferenze e problematicità del rapporto della testimonianza con la storiografia e la saggistica, sicuramente mutato nei secoli: se è vero che la storiografia e la saggistica hanno avuto sempre una volontà oggettivante e distanziante, diluendo le esperienze individuali in un discorso generalizzante, la testimonianza ha invece in primis un carattere soggettivo tendente ad esprimere le impressioni, le conseguenze, le tracce lasciate nel soggetto. Ma queste testimonianze oggi sono alla base dei processi di recupero e costruzione della memoria la cui centralità nei processi di costruzione storiografica è ormai riconosciuta.
D’altra parte, si tratta solo di ‘gradazione’ del rapporto referenzialità-finzionalità giacché, ci ricorda Giorgio Agamben, la testimonianza totale non esiste, perché il testimone integrale è colui che ha vissuto la esperienza fino alla fine, colui che conosce l’ istante precedente alla morte, colui che conosce la morte, e che pertanto non può testimoniare. Qualcuno però lo deve fare al posto suo.
È ciò che fa Ruggero Cappuccio, con parole di poeta e profondo senso civile.
Scritto nel 2004 con il consenso e la collaborazione della moglie del giudice ucciso dalla mafia, Agnese Borsellino, che nel 2004 dichiarò pubblicamente come nelle parole di Cappuccio si concretizzasse la resurrezione spirituale di suo marito, da più di 15 anni calca i palcoscenici di moltissimi teatri italiani. Nella prima versione sulla scena apparivano un uomo e cinque donne, in undici movimenti tratti dalla struttura dello “Stabat Mater Dolorosa” di Jacopone da Todi: Essendo Stato nasce come una messinscena che da quindici anni attraversa i più prestigiosi teatri italiani per poi diventare un monologo di Paolo Borsellino “puntando sulla funzione solitaria e rievocativa del giudice palermitano”.
Il testo di Cappuccio è stato richiesto da gruppi di magistrati di Milano, Trieste, Salerno e recitato in numerose letture pubbliche. Suo promotore nell’ambito della magistratura fu Franco Roberti, allora procuratore capo a Salerno e a capo della locale Direzione distrettuale antimafia (Dda) poi procuratore nazionale dell’antimafia, oggi eurodeputato. Nel 2013 Radio Tre ne registrò la rappresentazione tenutasi a Roma presso l’auditorium Parco della Musica che nel 2016 andò in onda su Rai Storia e Rai Uno.
Recentemente Feltrinelli lo ha ripubblicato arricchito dai disegni di Mimmo Paladino, dalle fotografie di Lia Pasqualino e una epigrafe di Tucidide, scelta con acume e competenza: “Lasciarono la vita / non nel momento / del supremo terrore / ma al culmine della gloria”. Ancora, sono pubblicate le dichiarazioni, desecretate dopo 24 anni su richiesta di Ruggero Cappuccio, rese da Paolo Borsellino e dal collega Giovanni Falcone a Roma il 31 luglio del 1988 dinanzi al Consiglio Superiore della Magistratura. Borsellino e Falcone, infatti, erano stati convocati dopo aver dichiarato pubblicamente che lo Stato non forniva loro i mezzi adeguati nella lotta contro la Mafia, che era in corso la smobilitazione delle forze di Polizia e quella del Pool antimafia, e che era stato messo in atto un processo di suddivisione delle indagini che avrebbe comportato la distruzione del lavoro sino ad allora compiuto. Un atto politico di grande rilevanza che confermò l’impegno a tutto tondo dei due magistrati, contro ogni logica di Stato e di Potere.
In Paolo Borsellino Essendo Stato, Ruggero Cappuccio si concentra sull’ultimo secondo di vita del magistrato, quando Borsellino sa di annaspare tra la vita e la morte. Rivive così la sua esistenza dall’angolazione del trapasso raggiungendo una lancinante lucidità sull’amore per la sua terra, la moglie, la madre, i figli, la lotta contro la mafia e lo Stato deviato, il tutto sottoposto a un luminoso processo interiore.
ESSENDO STATO: ambiguo e altamente suggestivo sia nel titolo – ‘stato’ participio passato o sostantivo? dichiarazione di una morte irreversibile o affermazione che anche dopo la morte lo stato ‘è’?– sia nell’attribuzione a un genere letterario – autoriflessione apocrifa ma anche costruzione di un possibile discorso autoreferenziale attraverso testi autoriali e documenti indicati graficamente con un cambio di carattere, con “parole … rigorosamente e fedelmente riportate”.
Lo stesso Ruggero Cappuccio nelle parole finali del testo rimarca l’importanza e l’ambiguità del titolo: “Ho amato così, essendo stato Paolo Borsellino. Ho amato così, Paolo Borsellino Essendo Stato”, con quest’ultimo “Essendo Stato” con le iniziali maiuscole. D’altronde, la diversa connotazione cronologica del titolo trova conferma in una frase iniziale: “sono finito. Forse sono finito. Sapevo che sarei finito. Guardavo da tempo al futuro della mia fine e la vedevo già trascorsa, già passata”.
Ambiguità nel titolo e nell’attribuzione a un ‘genere’, non teatro non romanzo non saggio. Ma i suoi caratteri combaciano con quelli attribuiti alla letteratura testimoniale: testimoniare ‘contro’ qualcosa, dare voce alla subalternità, cercare verità nascoste e divulgarle, lanciare una sfida allo status quo, testimoniare su esperienze limite ma facendone esperienza comune e condivisa è ciò che distingue inequivocabilmente la sfera testimoniale da altre scritture dell’Io, dalla saggistica e dalla generica ‘letteratura impegnata’. E Ruggero Cappuccio fa esattamente questo: dare voce a Paolo Borsellino nel momento stesso della morte, testimone estremo e integrale, secondo Giorgio Agamben, costruendo un discorso credibilissimo a partire da parole e testimonianze dello stesso Borsellino, corroborate dalla vedova Agnese e dai figli.
L’adesione a questo progetto dei familiari di Borsellino, la presenza di documenti integrali e le parole stesse di Cappuccio ne sono la conferma: “gli italiani potranno così leggere le parole che Borsellino pronunciò in un’atmosfera tesissima, parlando per quattro ore della solitudine del suo lavoro, dell’immobilismo e dell’ostruzionismo che lo accerchiarono. Desideravo che le parole pronunciate dal giudice dinanzi al CSM il 31 luglio 1988 e rimaste a lungo inaccessibili fossero costantemente a disposizione degli italiani [in] un libro in cui ciascuno potesse scegliere i tempi interiori di lettura, assecondando le proprie riflessioni e la propria intelligenza”.