I modi con cui una città e un intero popolo possono raccontarsi sono tanti: la tradizione orale, gli scritti, le rappresentazioni pittoriche, la toponomastica, l’architettura urbana, i monumenti…. A tutte queste modalità, a Napoli, storicamente, se ne è aggiunta un’altra: la canzone, quale forma di narrazione “dal basso” (almeno nella sua forma primordiale) e racconto intimo del popolo. Le canzoni ne rivelano spesso le umiliazioni, le sopraffazioni, la miseria (non solo materiale), tra le esigenze di riscatto sociale (mai davvero raggiunto) e i sentimenti, i desideri, i sogni, custoditi nella struggente bellezza di un tramonto: “Quanno tramonta ‘o sole, e tuttecosa, jènne pe s’addurmì dint’â nuttata, piglia ‘o culore ‘e ‘na viola ‘nfosa, tanno te penzo sora e ‘nnammurata” [Quando tramonta il sole, e tutte le cose, addormentandosi nella notte, assumono il colore di una viola bagnata, allora ti penso sola e innamorata], scriveva Ferdinando Russo in una sua celebre lirica del 1911.
Roberto Murolo nell’esecuzione per voce e chitarra di “Quanno tramonta ‘o sole” di Ferdinando Russo (1911)
Ma la canzone avrebbe avuto poca strada da percorrere se non avesse trovato dei propri, personali, “portavoce”: lo sono stati per lungo tempo i menestrelli, i cantastorie (alcuni preferiscono la variante di contastorie), i posteggiatori. Ultima evoluzione di questa lunga genia di musicisti di strada sono i cantanti-chitarristi di cui Roberto Murolo è il celebre capostipite, meritevole di avere dato legittimità e autorevolezza al ruolo di questi artisti girovaghi, grazie alla sua interpretazione colta e filologicamente corretta del repertorio napoletano. A partire da Murolo i cantanti-chitarristi napoletani, già “cantanti di taverna”, sono diventati “cantanti da concerto”, moltiplicandosi e raggiungendo un numero talmente elevato da rendere quasi impossibile conoscerli e citarli tutti: si tratta di una vera e propria dinastia.
La definizione non è casuale, essendo l’arte spesso tramandata di padre in figlio, come nel riuscitissimo caso di Egisto Sarnelli e Tony Tammaro. Il primo, originale cantante-chitarrista, di scuola, per così dire, tradizionale; il secondo (al secolo Vincenzo Sarnelli), geniale ideatore di un genere inedito: la musica “tamarra” (definita anche, dallo stesso Tammaro, musica “antidepressiva”). Due artisti che, in apparenza, sembrano non avere nulla in comune (parentela a parte): rigoroso interprete della canzone napoletana d’autore otto-novecentesca il primo, molto noto e apprezzato, soprattutto nei locali e nei salotti della borghesia napoletana; acclamato da un pubblico trasversale e molto eterogeneo (per età ed estrazione sociale) il secondo. Egisto Sarnelli ha rappresentato la Napoli autoriale di Salvatore Di Giacomo, Libero Bovio, Ernesto Murolo, E. A. Mario, difendendone la memoria e mettendola al riparo dall’imbarbarimento di mode interpretative transitorie e travisanti; una Napoli giocata spesso anche privilegiando il repertorio poetico-sognante e macchiettistico, con qualche sprazzo di denuncia sociale, per assecondare i gusti di un pubblico borghese poco incline a confrontarsi con le brutture della città, celate da quelli che Matilde Serao avrebbe definito “paraventi”.
Egisto Sarnelli nella interpretazione di Suspiranno, canzone di Ernesto Murolo ed Evemero Nardella del 1909, estratta dallo spettacolo “Chitarre in concerto” di e con Antonio Casagrande, con Roberto Murolo, Egisto Sarnelli, Mario Maglione, Tony Sigillo e Claudio Carluccio, trasmesso da Rai Uno nel giugno 1990.
Tony Tammaro, artista di acume e intelligenza raffinati, è invece il contro-narratore della Napoli della tradizione, usando il paradosso irriverente come cifra narrativa di un popolo di buzzurri metropolitani, con l’impietosa “radiografia” di una città imbarbarita dal consumismo, dal cemento e dal degrado. I protagonisti delle sue canzoni sono personaggi al centro di situazioni emblematiche e spassose, sullo sfondo di una società modaiola, grossolana e incolta. Un mondo in cui, le Fiat degli anni Sessanta, dai colori improbabili e ricoperte di adesivi, diventano il simbolo dell’emancipazione tamarra, Torregaveta l’ambita meta per un fine settimana d’amore clandestino, Bach un cantante che fa la pubblicità al deodorante (Bac).
Tony Tammaro nella interpretazione di una ‘romantica’ canzone d’amore.
Una Napoli, dunque, questa dei due Sarnelli, capace di piangere e ridere di sé stessa, cantata e descritta sotto diverse prospettive, tra i dipinti ottocenteschi della Scuola di Posillipo e il decadimento materiale e sociale dei vicoli ricoperti di “monnezza”, tra il dormiente sogno borghese di quello che forse non è mai stata ma che si desidera possa ancora essere e la visione lucida e ironica di quello che è diventata nella prospettiva di un’analisi calata nella realtà.