«Vecchiano, 25 aprile 1997
Caro Adriano Sofri,
il motivo di questa mia lettera aperta è costituito dalla lettura di un articolo di Umberto Eco nella sua rubrica settimanale “La Bustina di Minerva” (L’Espresso, 24 aprile 1997), che si intitola: “Il primo dovere degli intellettuali: stare zitti quando non servono a nulla”. La tesi avanzata da Eco, che tutti noi consideriamo ovviamente un intellettuale dotato di ottima cultura, è esposta con i canoni della geometria, e nella sua astratta impostazione non si riferisce a nessuna situazione specifica del momento storico che tutti noi stiamo vivendo, ma si avvale di esempi metaforici che tuttavia potrebbero plausibilmente essergli applicati.
(…) Ma quale è la figura dell’intellettuale che propone oggi Umberto Eco nell’articolo dell’Espresso che ti dicevo? Te ne cito un brano: “Se li si prende per quel che sanno dire (quando ci riescono) gli intellettuali sono utili alla società, ma solo nei tempi lunghi. Nei tempi brevi possono essere solo professionisti della parola e della ricerca, che possono amministrare una scuola, fare l’ufficio stampa di un partito o di una azienda, suonare il piffero alla rivoluzione, ma non svolgono la loro specifica funzione. Dire che essi lavorano nei tempi lunghi significa che svolgono la loro funzione prima e dopo, mai durante gli eventi. Un economista o un geografo potevano lanciare un allarme sulla trasformazione dei trasporti via terra nel momento in cui è entrato in scena il vapore, e potevano analizzare vantaggi e inconvenienti futuri di questa trasformazione; o compiere cento anni dopo uno studio per dimostrare come quell’invenzione aveva rivoluzionato la nostra vita. Ma nel momento in cui le aziende di diligenze andavano in rovina o le prime locomotive si fermavano per strada, non avevano nulla da proporre, in ogni caso assai meno di un postiglione o di un macchinista, e chi avesse invocato la loro alata parola si sarebbe comportato come chi rimproverasse a Platone di non aver proposto un rimedio per la gastrite”.
(…) Il compito dell’intellettuale (ma, vorrei insistere, quello dell’artista) è proprio questo, caro Adriano Sofri: rimproverare a Platone di non aver inventato il rimedio per la gastrite. È questa la sua “funzione” (e, specifico, funzione sporadica): ed è per questo che in un mio precedente articolo sul Corriere, rispondendo a un “Causeur” che voleva fare degli intellettuali un’Istituzione, avevo parlato di “funzione”. Altrimenti che ce ne facciamo di Joyce? O di Benjamin? O di Rimbaud? Li buttiamo via? Li teniamo rilegati in cuoio nelle nostre preziose librerie o li ficchiamo in soffitta come “oggetti desueti”? E che fare di Pasolini, il nostro amato Pasolini, che affermò “Io so” su tutti i misteri d’Italia? Del suo “sapere” noi sappiamo che di fatto non sapeva niente. Eppure sapeva tutto. Ce lo siamo già dimenticato? Io non me lo sono dimenticato, e credo neanche tu, caro Sofri. Però forse non è superfluo citare quel suo testo intitolato “Io so” che è del 1974:
“Io so, io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato golpe (perché in realtà è una serie di golpes istituitisi a sistema di protezione del Potere).
Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del dicembre 1969.
Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del ’74.
Io so i nomi del “vertice” che ha manovrato dunque sia i vecchi fascisti sia i nuovi fascisti e insieme gli ignoti (… ecc. ecc.).
Io so, perché sono un intellettuale, uno scrittore che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace, che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero e coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembravano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero”.
(…) Pasolini morì giovane come “colui che al cielo è caro”, destino antico di certi poeti, e non so se ebbe occasione di continuare quel suo discorso sociologico. Ma quella pagina resta, e se qualche giornale la volesse ripubblicare ora ha l’indicazione bibliografica.
(…) Insomma: se sono d’accordo con Eco che il compito di un intellettuale non è “suonare il piffero alla rivoluzione”, credo non sia neppure quello di fare il 113. Non ti pare, Adriano Sofri? È questo il problema vero che forse l’intellighenzia del nostro paese non ha mai affrontato seriamente, fatta eccezione per certi casi isolati (e, sia detto, assai odiati).
Continuando nel mio discorso zigzagante, ritorno all’articolo di Eco: “Quando la casa brucia, l’intellettuale può solo cercare di comportarsi da persona normale e di buon senso, come tutti, ma se ritiene di avere una missione specifica si illude, e chi lo invoca è un isterico che ha dimenticato il numero telefonico dei pompieri”. Il “vedi alla voce pompieri” è un suggerimento di utilissima praticità che può risolvere immediatamente il problema, e che evidentemente riposa sulla rassicurante fiducia nell’istituto dei pompieri. Ma che ne è di quel “dubbio” che può essere utile a sua volta? E se ad esempio i pompieri fossero in sciopero? E se i pompieri fossero in competizione con un’istituzione analoga ma concorrente che si chiamasse, poniamo, vigili del fuoco? E se i pompieri (ipotesi scherzosamente fantascientifica) fossero quelli di Fahrenheit 451 di Bradbury-Truffaut (che sono guarda caso due intellettuali?). Comunque, anche dando per efficaci le pompe dei pompieri, resta il problema delle cause dell’incendio.
(…) L’articolo di Eco si conclude così: “Cosa deve fare l’intellettuale se il sindaco di Milano si rifiuta di accogliere quattro albanesi? È tempo perso se gli ricorda alcuni immortali princìpi, perché se colui non li ha introiettati alla sua età non cambierà idea leggendo un appello; l’intellettuale serio a quel punto dovrebbe lavorare per riscrivere i libri scolastici su cui studierà il nipote di quel sindaco, ed è il massimo (e il meglio) che gli si possa chiedere”. Non neghiamo che l’intellettuale avveduto ritenga inutile rieducare il sindaco di Milano: magari gli sembrerebbe più opportuno, nel caso che non gli piaccia l’operato di quel sindaco, manifestare la sua opinione per indurre gli elettori a non rieleggerlo più. Tuttavia mi sembra assai ottimistica la pur nobile e roussoiana idea di un intellettuale che alle sue sudate carte affidi il senso della sua vita affinché i nipotini del sindaco di Milano siano da grandi migliori del nonno.
(…) Adriano Sofri, ci sono dei muri fatti di mattoni che ci separano, ma il Tempo in cui entrambi viviamo è lo stesso. Io sono qui, oggi, un giorno d’aprile del 1997. E questa per me è la cosa più importante di ogni altra, perché so che è irripetibile. Ed è per questo che ti scrivo questa lettera: perché se il chiavistello dietro il quale fisicamente ti trovi è stato chiuso da qualcuno, sono certo, leggendo ciò che scrivi, che tu non ti rassegni a far chiudere sotto un chiavistello il tuo intelletto, e da intellettuale lo usi affinché il chiavistello ti venga riaperto. (…) Certo lo spazio di movimento è angusto e la stanza un po’ all’oscuro. Non è facile far luce, e del resto, come diceva Montale, ci si deve accontentare dell’esile fiammella di un fiammifero. Ma è già qualcosa. L’importante è tentare di accenderlo. Anche un fiammifero Minerva.
Un saluto cordiale.»
[Antonio Tabucchi, La gastrite di Platone]